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“È pericoloso, per me, parlarvi”

tendopoli illegale che ospita dei migranti a San Ferdinando, in Calabria
Nel campo illegale di San Ferdinando, senza acqua né elettricità, durante la raccolta degli agrumi si ammassano fino a 1'500 immigrati. © MAGALI GIRARDIN

Per molti migranti africani, la battaglia non è vinta nel momento in cui si arriva sul suolo calabrese. La grande maggioranza non ottiene lo statuto di rifugiato e si ritrova in clandestinità dopo due o tre anni. Vulnerabili, questi migranti diventano facile preda per la tratta di esseri umani e sono sfruttati nell’agricoltura, nell’edilizia e nella prostituzione.

Appena usciti dal braciere libico e dalle sue indicibili violenze, appena arrivati in territorio italiano molti migranti rimpiombano nell’inferno dello sfruttamento e della noncuranza, se non addirittura della tratta di esseri umani. Nei ghetti creati e smantellati dagli interventi della polizia vivono centinaia di persone. Spesso sovraffollati nelle stagioni del raccolto, questi campi di (s)fortuna sono senz’acqua né elettricità, come quello di San Ferdinando dove si ammassano fino a 1500 persone in piena stagione agricola.

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Dopo diversi tentativi falliti di incontrare questi migranti naufragati nel campo, uno di loro accetta di risponderci. “Vi parlerò senz’altro per un paio di minuti, ma non vi porto lì. Se mi vedono con voi, sono in pericolo”. I suoi tre amici evitano i nostri sguardi, perché per loro è no. Dice ancora Amadou: “Cambi il mio nome e non dici da dove vengo, ok?”. Una volta rassicurato, riprende: “Ci vivo da due mesi, ero già lì l’anno scorso”, spiega un po’ nervoso. Sono in Italia da 7 anni, ho cercato lavoro un po’ più lontano, verso il Nord, ma è difficile e sono tornato per la stagione delle olive però non voglio rimanere qui”. 

Perché? “Non c’è acqua, l’inverno è troppo freddo e, se non sei della parte giusta, ti picchiano”. I suoi occhi si muovono a 360°. Si pente di aver cominciato questa conversazione. È giovane, ha 23 anni, ma il suo corpo martoriato porta delle cicatrici evidenti. Chi vi picchia? “Non lo so”. E perché? “Per il cibo, a volte, è complicato”. Si alza. “Ora devo andarmene”.

“Se vogliamo continuare ad avere la possibilità di aiutarli e prenderci cura di loro, non possiamo denunciare quel che succede in questi campi.”

Più tardi, dei calabresi accettano di indicarci dove si trova il campo di San Ferdinando, precisando che non ci accompagneranno. In questa regione toccata regolarmente da episodi di ribellione, che oppongono i migranti alle autorità e agli abitanti, con un picco di violenza costato oltre 60 feriti nel 2010, ognuno resta al suo posto. “Se vogliamo continuare ad avere la possibilità di aiutarli e prenderci cura di loro, non possiamo denunciare quel che succede in questi campi”, sottolinea un infermiere. “Se fossero privati dell’intervento delle ONG, alcuni non sopravvivrebbero a queste condizioni di vita inumane”.

È impossibile entrare nel campo senza essere accompagnati da un residente o dalla polizia. La particolarità del posto è l’allestimento di un campo “ufficiale” con grandi tende e una sorveglianza costante, situato a qualche decina di metri dal campo “illegale”, dove sono portati alcuni richiedenti al loro arrivo in Italia. Gli immigrati del ghetto si sono sollevati la scorsa estate contro l’impegno finanziario e di sicurezza dello Stato per il campo “ufficiale”, a discapito dell’assistenza umanitaria necessaria in tutto il settore (leggere l’appello dei migranti di San FerdinandoCollegamento esterno).

il campo ufficiale di San Ferdinando
Il campo ‘ufficiale’ di San Ferdinando. © MAGALI GIRARDIN

“Da un lato, i miei fratelli sono rinchiusi ma meglio alloggiati e dall’altro noi siamo liberi ma in condizioni sanitarie deplorevoli! Questa è l’Italia, hanno bisogno di noi per lavorare e quando gli fa comodo chiudono gli occhi”. Questo giovane gambiano racconta come raggiunge, in bicicletta, i punti di raccolta fissati dai “caporali” locali. “Bisogna essere lì molto presto, se si vuole lavorare. A volte ci sono delle risse. I più deboli non hanno alcuna chance.”

In effetti, alle 5 e mezza del mattino, questi fantomatici ciclisti circolano a decine a Rosarno, capitale dell’orticoltura calabrese. In piena campagna, una decina di africani aspetta a un piccolo incrocio. Più in là, all’angolo di una via di Rosarno, otto giovani pazientano su un muretto. “Hanno appuntamento con un caporale”, assicura un abitante del quartiere. “Alcuni vengono qui tutti i giorni.” Un furgoncino arriva e loro ci si infilano in fretta. Senza far rumore. I volti sono emaciati, la giornata sarà lunga.

Giovani in bicicletta il mattino presto davanti a una stazione di servizio.
Se si vuole avere un lavoretto, bisogna arrivare molto presto. © MAGALI GIRARDIN

“Non è legale, lo so”

Questo “business della migrazione” emerge molto rapidamente durante gli incontri con gli esiliati e la popolazione. Mentre parliamo con due africani vicino a un centro d’accoglienza, assistiamo a una banale scena quotidiana. Un’auto suona il clacson davanti all’entrata. Un impiegato esce, discute con l’uomo alla guida, un calabrese sulla cinquantina. Si volta e indica un giovane che non ha nemmeno il tempo di raccogliere le sue cose prima di infilarsi nell’auto, che è probabilmente diretta a una fattoria della zona.

“Non è proprio legale, lo so, ma io non ho visto niente. Per me, se il giovane è pagato correttamente, mi dico che è tutto di guadagnato per lui.”

“Non è proprio legale, lo so”, ammette il responsabile, “ma io non ho visto niente. Per me, se il giovane è pagato correttamente, mi dico che è tutto di guadagnato per lui. Le persone che ogni tanto vengono a cercare un bracciante al centro sono oneste”.

L’illegalità, qui, non scandalizza più nessuno. Il principale “datore di lavoro” dei migranti, la mafia calabrese, opera su più fronti, tra i quali la prostituzione e il lavoro nero. Tuttavia, secondo la maggior parte delle testimonianze raccolte sul posto, lo sfruttamento dei migranti non sarebbe sempre legato alla potente ‘ndrangheta. “C’è anche gente che cerca semplicemente di fare soldi facili”, afferma un responsabile di progetti d’accoglienza nella zona di Sant’Alessio in Aspromonte.

Il 22 settembre scorso, la polizia ha interrogato due fratelli vicino alla stazione balneare di Paola, in provincia di Cosenza. Erano sospettati di aver costretto dei migranti a lavorare, averli malnutriti e soprattutto aver imposto agli africani una paga di 10 euro inferiore a quella versata ad arabi e asiatici. Ma non è emerso alcun legame con la ‘ndrangheta. Scrive il Quotidiano del Sud: “Le indagini hanno rivelato condizioni di lavoro degradanti, i braccianti dormivano in capanni, mangiavano a terra ed erano sotto sorveglianza stretta e severa dei due fratelli arrestati”. Situazioni che rispecchiano tutta l’ambiguità dell’Italia, terra d’accoglienza e d’integrazione, almeno di facciata, dove però la divisione storica in clan favorisce l’emergere di ogni tipo di traffico.

In un’intervista concessa in luglio al quotidiano francese La Croix, Fabrice Rizzoli, autore del saggio ‘La mafia de A à Z’ e fondatore dell’associazione Crim’HALT, che sprona la società civile a contribuire alla lotta alla criminalità, spiega: “Viviamo in un mondo che crea mafia. Il modo in cui le leggi sono fatte o le droghe sono proibite apre delle opportunità al crimine organizzato”. Secondo l’esperto, sono poche le inchieste che riescono a ostacolarle, e i migranti restano una miniera d’oro per la ‘ndrangheta. “I mafiosi possiedono società di pulizie, di ristorazione, di lavanderie che permettono loro di ottenere appalti legati all’accoglienza di migranti”.

La realtà economica della regione spiega, in parte, questa complessità. “Non c’è ricambio; in Calabria, le giovani generazioni partono per cercare una vita migliore all’estero”, deplora un pensionato. “Chi lavorerà, qui? Nessuno vuol più lavorare nell’agricoltura, che è più o meno tutto ciò che resta dell’economia di questa regione, che è tra le più povere d’Italia”.

migrante africano al lavoro in un campo in Calabria
Immigrato al lavoro in un campo nei pressi di Lamezia Terme. © MAGALI GIRARDIN

Su sette milioni di calabresi censiti, due milioni vivono ancora al paese e cinque all’estero. Ecco perché la nuova manodopera in provenienza dall’Africa è pane benedetto per tutta la regione. Al di là degli sfruttatori, mafiosi o no, anche le autorità pubbliche beneficiano dell’apporto di questi migranti. “I comuni non hanno più i mezzi per mantenere le strade, tagliare gli alberi né assicurare un servizio di manutenzione regolare alla popolazione”, spiega Paolo Mascaro, sindaco di Lamezia Terme. “Da molti anni, noi proponiamo alle cooperative che alloggiano migranti di offrire una formazione professionale certificata a queste persone, che magari in seguito permetterà loro di trovare un lavoro più facilmente”.

Il principio di un’autorità pubblica che chiede ai rifugiati qualche ora di volontariato in cambio di alloggio e servizi non è certo scandaloso. In Calabria, però, una parte consistente dell’economia, ufficiale o parallela, dipende da questo “volontariato”.

Traduzione dal francese di Rino Scarcelli

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