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Droga: in Messico i morti, negli USA gli affari

Il capo di Stato Felipe Calderón presiede la cerimonia di commemorazione dell'indipendenza messicana, il 15 settembre. Reuters

Stanca della guerra dei cartelli e della brutale repressione statale, la società civile messicana si mobilita con marce pacifiche e proposte accademiche. Un vento di protesta che tocca da vicino anche la diaspora svizzera.

Il 15 settembre del 1810, al grido “Viva Messico”, il popolo iniziava la sua marcia verso la libertà. Anno dopo anno, la nazione celebra questo avvenimento storico che ha portato all’indipendenza dal dominio spagnolo. Questa volta, però, i festeggiamenti sono stati oscurati da un vento di protesta alzatosi nella società civile, stanca delle continue violenze legate al narcotraffico che secondo la stampa hanno provocato la morte di 48’000 persone e la scomparsa di altre 5’000.

Oggi, come 201 anni fa, il Messico chiede un intervento del suo popolo per rompere questa catena di massacri. Ma se Felipe Calderón punta tutto sulle armi, la società civile esige l’istituzione di un patto nazionale pacifico.

Una proposta sostenuta da un’ottantina di ricercatori messicani e stranieri, riuniti sotto l’egida dell’Università nazionale autonoma (UNAM), la più grande del paese. «È prioritario istituire un patto politico e sociale che permetta di dare un nuovo orientamento alla giustizia e alla sicurezza, in modo da poter affrontare questa ondata di violenza», si legge nel loro rapporto consegnato al presidente Calderón. «La diversità politica deve trasformarsi in un fattore di cambiamento e non di debolezza».

Il rischio di politicizzare la sicurezza

Il rischio di un’eccessiva politicizzazione della sicurezza e della giustizia è però grande, osservano i ricercatori. Soprattutto ora che il Messico si sta avvicinando alle elezioni presidenziali previste nel 2012, in un clima di marcata sfiducia della popolazione nelle sue istituzioni.

L’esperto dell’ONU sul crimine organizzato Edgardo Buscaglia parla di una «frammentazione» dello Stato messicano. Dopo 60 anni di potere di un unico partito, prosegue Buscaglia, la transizione verso un universo elettorale caotico ha aperto nuovi spazi, che sono stati occupati dalle mafie. «Ora è il crimine che cerca di gestire lo Stato e non il contrario. I gruppi criminali sono in guerra per conquistare il controllo sullo stato: per questo è esplosa la violenza», spiega il dottore in giurisprudenza.

Buscaglia è convinto che la strategia del governo di combattere il crimine organizzato con le armi aumenta un circolo vizioso nel quale i delinquenti non fanno altro che annientare i funzionari pubblici. «Più soldati e più polizia portano con sé più violenza e corruzione». Questo è il «paradosso della repressione».

Capitali colossali

Secondo Edgardo Buscaglia una delle ragioni per le quali il crimine organizzato mantiene un enorme potere di distruzione sta nel fatto che i suoi capitali si mantengono intatti. Le autorità riescono appena a confiscare il denaro che i delinquenti detenuti occultano sotto il materasso, ma il grosso del loro patrimonio rimane nascosto nelle casseforti di altri paesi.

Le stime parlano di 29 milioni di dollari l’anno che ruotano attorno al crimine organizzato e di un 10% del sistema finanziario messicano operante con denaro proveniente dal narcotraffico.

Secondo l’ultimo rapporto del centro statunitense di intelligence sul narcotraffico (NDIC), le organizzazioni legate al traffico di droga in Messico e in Colombia lavano tra i 18 e i 39 milioni di dollari l’anno.

Un braccio lungo fino agli Stati Uniti

La violenza genera violenza. E non solamente quella legata al narcotraffico. Secondo lo specialista ONU Edgardo Buscaglia, il crimine organizzato in Messico ha diverse ramificazioni (estorsione, sequestro, traffici illegali, …) e i suoi tentacoli raggiungono una cinquantina di paesi.

Senza andar troppo lontano, all’altro lato del Rio Bravo la situazione è preoccupante. «Il consumo di droga negli Stati Uniti continua a crescere e ad arrivare dal Messico», spiega a swissinfo.ch Karl Frei, rappresentante della diaspora svizzera in Messico. «Eppure nel momento stesso in cui la droga entra negli Stati Uniti si smette di parlare di traffico illecito, sembra che non esista proprio e che i narcotrafficanti siano solo un’invenzione», analizza Karl Frei.

L’impresario svizzero, che un tempo lavorava per l’UBS, ricorda che il traffico di stupefacenti genera profitti per bilioni di dollari. «Gli statunitensi vedono il narcotraffico come un affare, mentre in Messico i narcotrafficanti si battono per le strade. E per quale ragione? Perché non ci sia penalizzazione».

La popolazione paga le conseguenze dell’inefficienza dello stato messicano, ma anche dei suoi eccessi. Le violazioni dei diritti umani non sono una prerogativa della mafia.

A più riprese i movimenti sociali e accademici hanno denunciato gli abusi sulla popolazione da  parte di soldati e poliziotti. «I garanti della sicurezza e della giustizia nel paese riproducono situazioni di discriminazione che danno luogo alle più gravi violazioni dei diritti umani contro bambini, donne, giovani, migranti, indigeni, indigenti e handicappati, ma anche contro gli stessi funzionari delle istituzioni pubbliche di basso rango», denuncia il testo dell’Università nazionale autonoma (UNAM).

Gli svizzeri si uniscono

Mentre per le strade si continua a sparare, la società civile comincia ad organizzarsi. Migliaia di persone sono scese in piazza per dire “basta” alle aggressioni: la gente si unisce, comunica, si accompagna, quale misura di protezione e autoprotezione.

Dal canto suo l’ambasciata svizzera cerca di informare al meglio la diaspora sui possibili rischi. «Abbiamo preso diverse misure per mantenere il contatto con gli espatriati, per sapere dove si trovano e poter così reagire in modo rapido in caso di necessità», spiega Ursula Stump, console onoraria a Guadalajara. In questa città del Jalisco, la seconda più importante del paese, i segni di prosperità di un recente passato contrastano con la povertà attuale.

A inizio anno, l’ambasciata ha inviato un documento a tutti i cittadini elvetici residenti a Guadalajara che includeva i numeri di emergenza ai quali far appello in caso di necessità. La console spiega tuttavia che finora l’incremento della violenza non si è tradotto in un ritorno massiccio dei suoi compatrioti in Svizzera.

Karl Frei è dello stesso avviso. «Sicuramente alcuni svizzeri sono un po’ preoccupati, ma non è un sentimento generalizzato».

Intervistati in occasione dell’89esimo Congresso degli svizzeri all’estero a Lugano, entrambi hanno sottolineato l’importanza di attenersi a principi basici di sicurezza, come ad esempio cercare di evitare di passeggiare in zone pericolose. «Uno deve fare un po’ più attenzione a dove va e a che ora esce. In questo modo si può ridurre di molto il pericolo».

Dal mese di dicembre del 2006, il presidente Felipe Calderón ha dato inizio a una lotta armata contro il narcotraffico.

Oltre 50’000 soldati sono stati messi in campo per cercare di rompere i cartelli della droga che si contendono il traffico verso gli Stati Uniti, il principale consumatore al mondo.

Stando alle cifre della stampa messicana, sarebbero oltre 48’000 le persone uccise – spesso civili innocenti – in regolamenti di conti legati al narcotraffico o in operazioni di polizia.

I desaparecidos recensiti nei cinque anni di presidenza Calderón sono più di 5’000. Nella maggior parte dei casi, queste sparizioni sarebbe opera delle autorità civili o militari. Quasi 9’000 corpi esumati dalle fosse comuni non sono stati identificati.

Lo scorso anno sono stati denunciati in media 350 delitti al giorno. Meno del 5% sono oggetto di un processo penale.

Ogni dieci detenuti, quattro non sono stati condannati. E sulle 429 prigioni del paese, 48 sono sovraffollate.

L’80% della popolazione messicana si sente insicura.

Nel suo rapporto 2011, Amnesty International sottolinea che il Messico è un paese altamente pericoloso per i difensori dei diritti umani, i giornalisti, i sindacalisti e tutti coloro che sono attivi in movimenti sociali e civili.

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