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I ribelli siriani scoprono il gioco politico

Ad Alep, i ribelli sfoderano una bandiera della Siria gruppi armati utilizzano la "bandiera dell'indipendenza", a banda verde (al posto della fascia rossa) e tre stelle (invece di due). AFP

Nonostante gli sforzi compiuti, le diverse correnti dell'opposizione siriana faticano a trovare una linea comune. Quali dinamiche regolano i rapporti tra questi gruppi? E quali sono le loro aspettative per il dopo Assad? Swissinfo.ch ne ha discusso con tre esperti.

Con la crescente militarizzazione della crisi in Siria, in seno all’opposizione si delineano essenzialmente due correnti di pensiero, spiega il ricercatore tedesco Heiko Wimmen, professore della Fondazione di scienze politiche di Berlino, un istituto di ricerca indipendente.

«All’inizio dell’insurrezione i manifestanti hanno lanciato un processo politico attraverso la resistenza civile. Questa è la prima dinamica emersa. La seconda è legata invece alla resistenza armata che, secondo i ribelli, si è resa necessaria per proteggere i manifestanti».

Negli ultimi mesi, la lotta armata sta prendendo sempre più piede e «con essa aumenta l’influenza di attori esterni come l’Arabia Saudita o il Qatar. I ribelli hanno bisogno di armi, dato che le loro risorse sono limitate».

Rischio di esplosione

«Più a lungo dura il conflitto e più i gruppi armati avranno un ruolo determinante nella gestione del dopo Assad, prosegue Heiko Wimmen. Di conseguenza, o le forze ribelli decidono di dotarsi di una migliore struttura, di essere più trasparenti e responsabili, oppure si trasformeranno in milizie incontrollabili, guidate dai signori della guerra, con le loro risorse, i loro territori, le loro regole».

Dopo la caduta di Baschar al Assad, bisognerà portare queste milizie al tavolo dei negoziati e affidare loro dei compiti specifici in seno alla nuova Siria, prosegue il professore di Berlino. «E questo non è di buon auspicio per il futuro democratico del paese».

«Se questo scenario si avverasse, coloro che finanziano i ribelli diventerebbero i veri leader della Siria: siano essi l’Arabia Saudita, il Qatar o la Turchia. Mentre le truppe lealiste si trasformerebbero in uno strumento a servizio dell’Iran o della Siria».

L’entrata in scena di gruppi terroristi oscura ancor più il paesaggio politico siriano. Stando al ricercatore Yves Besson, «la minaccia jihadista è concreta. Ci sono gruppi che obbediscono a diversi ordini. Sono difficili da identificare, eccetto per i servizi segreti. Gli islamisti in provenienza dalla Siria che tra il 2005 e il 2007 avevano rinfoltito i ranghi di al Qaida in Iraq, oggi attraversano la frontiera in senso contrario. Molti di loro, tra l’altro, sono cittadini siriani», aggiunge l’ex diplomatico svizzero.

Necessaria maggiore trasparenza

Per Heiko Wimmen, «se la resistenza armata riuscirà ad organizzarsi con strutture più chiare, e sarà in grado di sapere chi fa cosa sul campo, le sarà più facile isolare i terroristi».

Resta il fatto che l’opposizione fatica a trovare un’intesa su come gestire la transizione e il futuro del paese, una volta caduto il regime. «Ciò che distingue l’opposizione siriana da quella di altri paesi che hanno vissuto la primavera araba, è il numero impressionante di riunioni organizzate ad Istanbul, al Cairo, a Roma o a Berlino. I ribelli sono coscienti delle loro divergenze, ma devono apprendere a negoziare», commenta dal canto suo Hasni Abidi, direttore del Centro di studi e di ricerche sul mondo arabo e mediterraneo di Ginevra.

Heiko Wimmen ricorda le tappe trascorse dall’inizio della ribellione: «Inizialmente il Consiglio nazionale siriano (CNS) voleva essere l’unica piattaforma dell’opposizione. Per questo è stato fatto un grande sforzo per riunire il maggior numero di persone e correnti. Fino allo scorso anno, il CNS ha negoziato con il Comitato di coordinazione nazionale per il cambiamento democratico (CCNCD, un’altra coalizione, ndr). Ma queste trattative sono fallite, così come tutte le discussioni con i curdi di Siria. Da allora c’è una tendenza alla frammentazione più che all’unificazione».

Imparare ad opporsi

«Forse non è stata una grande idea voler metter tutti sulla stessa barca del CNS», spiega Heiko Wimmen. «Sarebbe stato meglio intavolare dei negoziati per trovare un punto di convergenza e dei principi comuni, invece di disperdere energie per istituire un organismo strutturato che parlasse a nome di tutta l’opposizione». Tanto più, sottolinea ancora il ricercatore tedesco, che l’opposizione interna è poco rappresentata fuori dai confini siriani.

Per Hasni Abidi, l’opposizione interna al paese ha un peso maggiore rispetto a quella esterna. «I comitati di coordinazione locale (CLC) hanno assunto un ruolo importante e si dicono più vicini alla popolazione. Il CNS, invece, riunisce centinaia di persone nel tentativo di accontentare tutte le correnti, ma è confrontato con difficoltà enormi».

«Questi due organi dicono entrambi rappresentare l’opposizione e mantenere legami stretti con l’Esercito siriano libero. È anche per questo, prosegue Hasni Abidi, che le cancellerie occidentali non hanno voluto riconoscerli come interlocutori legittimi. ».

Se queste divergenze di visione rischiano di indebolire la lotta dell’opposizione contro il regime siriano, sono anche espressione di una realtà democratica. «Le frange dei ribelli sono frammentate perché, fatta eccezione per i Fratelli musulmani di Siria, si trovano per la prima volta confrontata con una vera opposizione. L’insurrezione permette loro di costruire  un’opposizione che prima non esisteva all’interno di un paese dominato dalla dinastia Assad».

Ma per Yves Besson, il pericolo sta proprio qui: «La Siria è un Libano all’estrema potenza, dal punto di vista del caos potenziale. La sola differenza sta nel fatto che il Libano è abituato ormai da decenni a gestire questa instabilità, con riforme relativamente democratiche. E l’unica volta in cui non sono riusciti a gestire questa instabilità, sono sprofondati in una guerra civile».

Durante sei mesi, una cinquantina di rappresentanti delle diverse correnti dell’opposizione siriana si sono riuniti nella capitale tedesca. Questi negoziati si sono svolti sotto l’egida dell’Istituto americano per la pace (USIP) e della Fondazione per le scienze politiche.

Battezzate “The Day After” (Il giorno dopo), queste riunioni avevano lo scopo di definire delle misure concrete da applicare nei giorni seguenti la caduta del regime, per evitare il sopraggiungere di un caos politico ed economico. Stando al ricercatore Hasni Abidi, non si è trattato di incontri politici, ma pedagogici.

Le raccomandazioni scaturite da queste riunioni saranno pubblicate a fine agosto.

Il Dipartimento federale degli affari esteri svizzero ha messo a disposizione un fondo di 50’000 euro per coprire parte delle spese logistiche.

«La Svizzera, in conformità con la dichiarazione di Ginevra e le risoluzioni adottate dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, sostiene gli sforzi volti a favorire una transizione pacifica e ordinata in Siria», ha spiegato a swissinfo.ch il portavoce del DFAE Pierre-Alain Eltschinger.

(Traduzione dal francese, Stefania Summermatter)

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