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Di Omicron si conoscono già 32 mutazioni

Il virus nella variante Omicron in un elaborazione grafica.
Omicron in un'elaborazione grafica. Franciolli, Riccardo (swissinfo)

La nuova variante Omicron del coronavirus, emersa giovedì in Sudafrica preoccupa il mondo. Sono ben 32 le mutazioni presenti sulla proteina spike, un numero mai riscontrato prima che, secondo gli esperti, potrebbe potenzialmente rendere il virus più trasmissibile e resistente ai vaccini.

Per capire meglio di cosa si tratta, siamo stati alla Humabs BioMed di Bellinzona, dove nei laboratori si sta già studiando questa nuova mutazione, per intervistare il direttore scientifico Davide Corti.

Le informazioni certe sono ancora poche. La prima preoccupazione è la presunta grande trasmissibilità.

“Si sa che almeno in una regione del Sudafrica sembra essere in grado di trasmettersi con un’efficienza tale da prevaricare la diffusione del virus Delta. È un virus, dunque, che potenzialmente ha la capacità di diffondersi ulteriormente, e questa ovviamente è una preoccupazione, ma dovremo stare a vedere nei prossimi giorni come evolverà la situazione”, spiega Davide Corti, direttore scientifico Humabs BioMed.

Secondo la comunità scientifica, la variante Omicron si sarebbe originata nel corpo di un paziente immunodepresso perché malato di AIDS. Un terreno favorevole alle evoluzioni del coronavirus. Le mutazioni riscontrate sulla proteina spike sono ben 32, ma a preoccupare non è tanto il fatto che si tratti di un numero mai visto prima, quanto piuttosto la zona in cui sono distribuite.

“Preoccupano alcune di queste mutazioni, particolarmente quelle presenti nella cosiddetta regione che interagisce con i recettori. Le conosciamo già e sono mutazioni che hanno un effetto sull’efficacia dei vaccini. In questo caso, però, il numero di mutazioni è così elevato che dovremo vedere cosa succede quando queste mutazioni sono presenti in combinazione”, sottolinea Davide Corti.

Variazioni che possono potenzialmente rendere il virus molto più trasmissibile e resistente sia ai vaccini, sia alle terapie.

“Abbiamo già iniziato a lavorare in questo laboratorio per preparare varianti del virus in una variante non infettiva. Questo ci consentirà di controllare se gli anticorpi monoclonali, compreso il nostro, siano meno efficaci. Ovviamente poi si pone anche il quesito circa gli agenti antivirali che sono stati sviluppati di recente. Bisognerà controllare e verificare”, aggiunge.

Oltre a ciò, bisognerà anche capire se i criteri diagnostici attuali saranno adatti per individuare il virus facilmente nei pazienti infetti. Domande alle quali la comunità scientifica tenterà di rispondere il più presto possibile, per cercare di capire in che modo affinare le armi per contrastarlo.

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