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In attesa di un accordo, la COP26 ritarda la chiusura

Il summit ha scatenato proteste in molte città del mondo.
Uno dei nodi principali è l’aiuto finanziario ai paesi meno sviluppati. Keystone / Laurent Gillieron

Va ai supplementari la conferenza ONU sul clima. I negoziati non sono infatti finiti e continueranno almeno fino a tarda sera per arrivare a una decisione sull’ultima bozza di accordo. Uno dei nodi principali è l’aiuto finanziario ai paesi meno sviluppati.

Non sono ancora conclusi i negoziati alla COP26 di Glasgow. Molti i temi che restano ancora sul tavolo e tanti i punti sui quali i numerosi attori non trovano convergenza: da programma si attendevano i contorni del documento finale alle nostre ore 18, invece le discussioni procedono. 

Una settimana in politica corrisponde ad un’era geologica. Un adagio più che mai attuale a Glasgow dove venerdì scorso era un susseguirsi di enfatici annunci, roboanti intenzioni, da parte dei leader del pianeta. Sette giorni dopo, le speranze di questa conferenza sul clima sono entrate in rotta di collisione con la realpolitik.

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“È un processo, proprio come il cambiamento climatico. Anche solo riunire il mondo intero sul tema ambientale ha richiesto decenni. E dobbiamo continuare a lavorare, a cercare soluzioni condivise. Perché la crisi riguarda tutti, e c’è bisogno che tutti diano il proprio contributo”, asserisce Cassie Flynn, la consigliera strategica sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite.

Uno sforzo monumentale – nelle parole del presidente della COP26 Alok Sharma. Da una parte ci sono gli interessi economici e le priorità nazionali, dall’altra l’emergenza climatica, che si declina in crisi ambientali differenti, a seconda delle latitudini. 

Effetti diversi in Paesi diversi

“Il cambiamento climatico colpisce i paesi in maniera diversa, e ciascun paese usa differenti strumenti per combatterlo. Se sei una nazione insulare la tua principale preoccupazione saranno gli uragani, sempre più devastanti. Ai poli, viceversa, la priorità è lo scioglimento dei ghiacci”, continua ancora Flynn. In Amazzonia, la minaccia ambientale si chiama deforestazione, che ogni giorno devasta un’area equivalente a circa la metà dell’intera superficie del canton Ticino. 

Evitare il punto di non ritorno

“Cinque anni! Stiamo dicendo che in cinque anni, a partire da adesso, se non facciamo qualcosa di concreto per fermare gli incendi e la deforestazione, lo sfruttamento petrolifero e delle miniere, rischiamo una crisi irreversibile, il punto di non ritorno”, commenta da parte sua Davi Kopenawa, rappresentante delle popolazioni indigene dell’Amazzonia.

Arginare le perdite

Per quanto concerne il continente africano, essenziali sono gli aiuti finanziari, non solo per favorire l’adattamento climatico, ma anche per arginare le perdite e i danni subiti dai paesi più poveri. “Abbiamo bisogno di aiuti economici per portare avanti i nostri piani di sviluppo, siamo un paese povero. Eppure i meccanismi finanziari ci chiedono soldi per contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico, come se fosse una nostra colpa”, sostiene Benjamin Toirambe Bamoninga, ministro dell’Ambiente della Repubblica Democratica del Congo.

Esigenze e necessità differenti, che già spostano inevitabilmente le aspettative del mondo su Sharm El Sheikh, dove tra 12 mesi andrà in scena la COP27.


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