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Chikù, la cucina che unisce

donne preparano cibo in cucina di ristorante
Un incontro tra culture nel quartiere di Scampia tvsvizzera

Emilia e le sue due colleghe si rivedono nella cucina di Chikù dopo tanto tempo. “Il Covid – spiegano con un sorriso amaro – ci ha rovinate, ma noi stiamo sempre qua”.

Chikù è un ristorante, ma anche un esperimento sociale che ha avuto un impatto straordinario sul territorio. Si tratta del primo ristorante italo-rom d’Italia. Nasce a Scampia, uno dei quartieri più difficili di Napoli, dove per anni due popoli – quello napoletano e quello rom del campo di Cupa Perillo – hanno convissuto senza mai parlarsi. Il fatto che oggi donne napoletane e donne rom gestiscano insieme un ristorante è quasi un miracolo.

“I miracoli non sono mai abbastanza – continuano le cuoche del ristorante – e ora ne avremmo bisogno di uno nuovo per poter ripartire davvero dopo questo periodo di pandemia. Se c’è stato il primo perché non dovrebbe essercene un altro?”.

Due realtà, un ristorante

Quello che oggi sembra un ristorante come tutti gli altri nasce dall’incontro tra due realtà associative di Scampia: l’associazione “Chi rom e chi no” (che nasce nel 2002 per attivare progetti di inclusione sociale con i bambini del campo rom di Cupa Perillo, tra i più estesi e popolati della città) e l’impresa sociale “La Kumpania”.

Quest’ultima nel 2010 si fece promotrice di un progetto basato sull’incontro tra le donne del campo rom e quelle italiane del quartiere. L’obiettivo iniziale era semplice: parlare, discutere, conoscersi.

“Il primo impatto – ci spiega Emilia Gemito, cuoca al Chikù e una delle prime donne di Scampia a mettere piede all’interno del campo rom di Cupa Perillo – è stato traumatico. Noi mica ci fidavamo delle persone che vivevano lì dentro.”

Per fortuna però i volontari de La Kumpania trovarono un modo per abbattere le barriere culturali: la cucina.

All’inizio a cucinare furono solo le donne rom. Poi, apprezzando la tipica cucina dei Balcani, napoletane e rom cominciarono a cucinare insieme e a mischiare ricette, gusti e tradizioni. Fino alla decisione più importante (e più rischiosa): aprire un vero ristorante lì dove tutto era iniziato.

“Gestire un ristorante a Scampia – spiega Emilia – è assai complesso, perché è in piena periferia. Qui non ti capita di venire. Se vuoi mangiare da noi devi venire appositamente. E molti hanno un sacco di pregiudizi, sia sul luogo troppo spesso legato solo a brutti fatti di droga e camorra e sia sul fatto stesso che offriamo cucina rom”.

“Caro signor presidente…”

Se portare avanti un ristorante italo-rom in piena periferia non era facile prima della pandemia, con l’arrivo del Covid-19 le cose sono andate anche peggio. Tanto che Emilia insieme alle colleghe Rosa, Rosaria e Samantha qualche mese fa ha scritto una lettera al presidente della Repubblica Sergio Mattarella per chiedergli aiuto.

Nella lettera al capo dello Stato Emilia scrive: “Prima di iniziare questa splendida avventura, io come le altre eravamo “semplici” casalinghe – come piace definirmi “casalinghe disperate”; poi è iniziato il nostro cammino di conoscenza, e neanche sapevamo fino a dove ci avrebbe portato. Invece con nostro grande stupore, questo cammino ci ha dato più di qualcosa: dignità, indipendenza, consapevolezza. Personalmente mi ha fatto sentire viva, perché oltre a un piccolo aiuto economico che sono riuscita a portare in famiglia, mi ha fatto provare quell’adrenalina, che ti scuote dentro e ti fa pensare: io sono capace, posso essere oltre che una mamma, una donna che lavora”.

E dopo aver raccontato i problemi legati all’emergenza sanitaria, Emilia chiude la lettera al presidente con una richiesta: “Quest’ultima sfida – scrive – ci sembra che si possa superare solo con uno sforzo superiore e congiunto e per questo, a nome di tutte, richiamo l’attenzione di tutte e tutti. Non so cosa mi aspetto da questa lettera aperta, ma spero che qualcuno creda ancora una volta in noi e che così possa continuare il nostro sogno, possiamo riaccendere i fornelli e farvi gustare i nostri piatti”.

La presenza in sala di un gruppo di ragazzi portoghesi arrivati a Scampia per conoscere e studiare lo straordinario dedalo di associazioni culturali e sociali che ha aiutato il quartiere a riacquistare una propria identità lontana da quella camorristica è senz’altro una buona notizia.

“Ma mica possiamo andare avanti con sei persone a settimana?” è la domanda retorica di Emilia.

“Però non mi arrendo – continua – non ci arrendiamo. Perché questa è casa mia”.

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