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Quelle scuole che permettevano di uscire dall’armadio

banco di scuola con dei quaderni
L'esposizione al Museo di storia di La Chaux-de-Fonds dedica ampio spazio alle scuole clandestine. Aline Henchoz

Nella seconda metà del secolo scorso, molti bambini e bambine figli di stagionali hanno potuto essere scolarizzati solo grazie al coraggio e alla passione di alcune persone che, sfidando la legge, hanno dato vita a vere e proprie scuole clandestine.

È sicuramente un capitolo non proprio rilucente della storia contemporanea svizzera quello esposto al Museo di storia di La Chaux-de-FondsCollegamento esterno, nel Cantone Neuchâtel.

Intitolata “Enfants du placard; à l’école de la clandestinité” (“Bambini nell’armadio; a scuola di clandestinità), la mostra “vuole dare voce a coloro a cui la parola è stata in gran parte negata”, sottolinea il direttore del museo Francesco Garufo.

Ovvero a tutti quei bambini e quelle bambine che hanno dovuto vivere clandestinamente in Svizzera (nascosti nell’armadio) poiché i loro genitori avevano un permesso di lavoro stagionale.

Il famigerato permesso A, abolito nel 2002 con l’entrata in vigore della libera circolazione delle persone tra Confederazione e UE, non permetteva infatti il ricongiungimento familiare. Molti genitori che ‘facevano la stagione’ in Svizzera erano così costretti a lasciare i loro figli in patria, dove erano accuditi da altri membri della famiglia. Spesso, però, il distacco era troppo doloroso e quindi i lavoratori e le lavoratrici stagionali, principalmente da Italia, Spagna e Portogallo, portavano i figli con sé. Infrangendo così la legge.

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Non fare rumore!

Cifre precise non ve ne sono, proprio per la natura illegale del fenomeno. All’inizio degli anni ’70, si stima che vi fossero fino a 15’000 ragazzi e ragazze clandestini in Svizzera. Solo una stima, ma che sicuramente dà un’idea di quanti bambini hanno dovuto vivere nell’ombra durante questo periodo che si è protratto come detto fino al 2002.

frasi scritte su un muro
Frasi più o meno comuni, ma che per i bambini clandestini rivestivano un significato molto particolare. Aline Henchoz / Museo di storia La Chaux-de-Fonds

Nell’ombra, appunto, o meglio nell’armadio. “Fai attenzione”, “Non parla a nessuno”, “Non fare rumore”… Su una parete dell’esposizione sono riprodotte frasi che probabilmente tutti sentiamo da piccoli, ma che per quei ragazzini e ragazzine rivestivano un significato del tutto particolare. Farsi scoprire poteva infatti significare l’espulsione.

Un reportage del 1969 della trasmissione della RTS Temps Présent

“Avevamo fatto rumore e qualcuno ci aveva denunciati”, ricorda Rafael, uno dei sei ‘bambini nell’armadio’ che hanno accettato di testimoniare per l’esposizione. Il poliziotto incaricato del controllo dà però prova di grande umanità e quando entra nell’appartamento chiede in modo retorico ai genitori di Rafael, che nel frattempo si è nascosto in una stanza assieme ai fratelli: “Siamo d’accordo che qui non ci sono bambini…”.

La difficoltà di testimoniare

“Non è facile trovare persone disposte a testimoniare”, osserva Sarah Kiani, che all’Università di Neuchâtel sta conducendo un progetto di ricerca sui ‘bambini nell’armadio’Collegamento esterno, diretto dalla professoressa Kristina Schulz, e i cui primi risultati sono confluiti proprio in questa esposizione. “Molti ci hanno detto di no, c’è un senso di vergogna che resta anche a distanza di anni”, prosegue.

A emergere dalle testimonianze raccolte non sono però solo ritagli di vita tristi o difficili. “Ci sono stati vari modi di affrontare questa situazione di clandestinità e non sempre si tratta di storie cupe”, osserva Sarah Kiani. “Questa esposizione vuole proprio anche trascrivere la diversità delle esperienze vissute”, le fa eco Francesco Garufo.

L’importanza della scuola

Se vi è però un denominatore comune che balza agli occhi da tutte queste esperienze è l’importanza che ha rivestito la scuola per permettere a questi minorenni di uscire dall’armadio. Non è un caso che la mostra dedichi ampio spazio proprio a questo tema.

Oggi il diritto al ricongiungimento familiare o il diritto di potere accedere all’insegnamento sono sanciti a chiare lettere dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia dell’ONU. Questo trattato è però relativamente recente (1989) e la Svizzera lo ha ratificato nel 1997, esprimendo tra l’altro riserve sulla questione del ricongiungimento familiare.

In altre parole, per molti decenni la scuola pubblica è rimasta un miraggio per chi viveva senza permesso in Svizzera.

Delle casse come scrivanie

Non tutti però sono rimasti con le mani in mano. Nel 1971, a Renens, nel Canton Vaud, viene aperta la prima “classe speciale” per bambini clandestini, ad opera di associazioni di migranti.

L’anno seguente, a Neuchâtel due amiche creano una scuola clandestina che sarà attiva per due anni. “Delle casse della fabbrica di sigarette Brunette sono utilizzate come scrivanie”, si legge su un cartellone dell’esposizione.

Qualche anno dopo, all’inizio degli anni ’80, a La Chaux-de-Fonds, sempre nel Cantone Neuchâtel, l’insegnante Denyse Reymond crea un’altra scuola, che diventerà poi la Scuola MosaïqueCollegamento esterno ed esiste tuttora.

E il Museo storico di La Chaux-de-Fonds ricostituisce in un’ala dell’esposizione un’aula della Scuola Mosaïque, coi quaderni degli allievi e delle allieve che l’hanno frequentata, i loro disegni…

I corsi impartiti da Denyse Reymond sono aperti a tutti i bambini che si trovano in una situazione di illegalità e, aspetto non da poco per queste famiglie che di certo non nuotano nell’oro, sono gratuiti. I fondi necessari per coprire le spese sono raccolti tramite donazioni.

“Questi ragazzi non sapevano dove andare e nove anni fa, quando ho fondato questa scuola con mia figlia, andavamo a cercare i bambini dove erano nascosti”, racconta Denyse Reymond in questo servizio d’archivio della Radiotelevisione svizzera RTS.

Clandestine… ma non troppo

“Oltre al loro compito principale che è quello di istruire i bambini, queste scuole hanno svolto anche un’altra funzione primordiale – precisa Sarah Kiani – ossia sono state per questi ragazzi e ragazze e per le loro famiglie una porta d’accesso a tutto ciò di cui un bambino ha bisogno, ossia le cure mediche, dentistiche, le attività culturali e sportive…”.

Anche se l’esistenza di queste scuole era più o meno conosciuta, le autorità comunali e cantonali – almeno a Neuchâtel e a Ginevra – hanno tranquillamente chiuso un occhio. Anzi, se ci si basa su una lettera del 1983 di un’insegnante di La Chaux-de-Fonds attiva in questi ambiti le autorità cantonali avrebbero addirittura partecipato al suo finanziamento.

Questa zona grigia si protrae fino al 1990, quando proprio questi due Cantoni fanno da pionieri in Svizzera, decidendo che il diritto alla scolarizzazione primeggia sulle norme che regolano l’immigrazione in Svizzera. Le scuole pubbliche aprono così ufficialmente le loro porte anche ai bambini e alle bambine giuridicamente non in regola.

Istruzione per tutti

Negli anni successivi altri Cantoni compiono lo stesso passo, anche perché la Convenzione sui diritti dell’infanzia dell’ONU – ratificata come detto dalla Svizzera nel 1997 – prevede esplicitamente il diritto a un’istruzione primaria gratuita per tutti. Oggi chiunque può frequentare le scuole pubbliche.

L’abrogazione nel 2002 dello statuto di stagionale non significa però la fine della clandestinità. Secondo una stima della Segreteria di Stato della migrazione, nel 2015 in Svizzera vivevano tra 50’000 e 99’000 persone senza statuto di soggiorno regolare. Tra di loro anche molti bambini e bambine.

Se l’accesso all’istruzione è ormai garantito, le incognite che pesano su questi ultimi e sulle loro famiglie persistono. Appena quattro anni fa, una mozione parlamentare presentata dalla destra (e poi ritirata) chiedeva tra le altre cose di agevolare, ad esempio in campo scolastico, lo scambio di informazioni tra gli organismi statali sulle persone senza statuto di residenza valido. Una misura che, secondo alcuni, avrebbe potuto spingere i genitori privi di documenti a rinunciare ad inviare i loro figli a scuola.

“La tematica è cambiata molto rispetto agli anni ’70 e ’80, ma è ancora d’attualità, osserva Francesco Garufo. Solleva la questione dell’integrazione, del ricongiungimento familiare. La storia dei bambini nell’armadio ci permette di riflettere sull’importanza dell’integrazione e della formazione dei giovani migranti al giorno d’oggi”.


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