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Un segno di vita vale per centomila esopianeti

Cielo stellato visto in condizioni di luce ideale in ambiente alpino; Piccola baita con finestra illuminata in primo piano
La Via Lattea vista dalla Vallée des Ormonts, Svizzera, in un'immagine del maggio 2018. Keystone / Anthony Anex

Per scoprire se c’è vita sugli esopianeti, nei prossimi decenni se ne studierà lo spettro luminoso. A seconda di come assorbono o riflettono la luce emessa dalla stella attorno a cui ruotano, si potrà capire se nella loro atmosfera presentano ossigeno, metano o azoto, vere e proprie firme biologiche. Ma quale portata avrebbe la scoperta di uno di questi segni di vita?

La risposta è in uno studio congiunto del Politecnico federale di Losanna (EPFL) e dell’Università degli studi di Roma ‘Tor Vergata’, pubblicato dalla rivista scientifica statunitense Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS).

Secondo un calcolo statistico elaborato da Claudio Grimaldi, ricercatore al Laboratorio di fisica della materia complessa all’EPFL, e Amedeo Balbi, professore di astronomia e astrofisica dell’ateneo romano, la scoperta di una sola firma biologica consentirebbe di concludere con una probabilità maggiore al 95% che i pianeti con qualche forma di vita nella Via Lattea siano oltre 100’000.

Gli esopianeti sono pianeti che ruotano attorno a una stella diversa dal nostro Sole. Il primo fu scoperto nel 1995 dagli astrofisici svizzeri, premi Nobel, Michel Mayor e Didier Queloz. Da allora, sono stati scovati oltre 4’300 pianeti extrasolari, di cui circa 200 rocciosi e di dimensioni simili alla Terra. L’analisi spettroscopica richiede una certa posizione rispetto alla stella e non troppa distanza dall’osservatore: sarà quindi effettuata “su una manciata di esopianeti più promettenti”.

Un sogno lontano

A scanso di equivoci, per trovare quel segno ci vorrà del tempo. “È un campo di indagine relativamente nuovo”, conferma Balbi, “anche perché negli ultimi 25 anni lo sforzo si è concentrato sulla scoperta di nuovi esopianeti. Lo studio spettroscopico delle atmosfere è molto più recente e per il momento si è dimostrato fattibile soprattutto per pianeti che hanno una forte componente gassosa”.

Nei pianeti extrasolari più simili al nostro, con una forte componente rocciosa e dove in definitiva ci si può attendere di trovare la vita, l’atmosfera è piccola rispetto all’intera massa del corpo celeste, e per questo tipo di osservazione la tecnologia attuale non basta.

telescopio spaziale appena finito di assemblare in un laboratorio; scritta ESA e RUAG intorno
Il noto telescopio spaziale CHEOPS è dedicato allo studio dei pianeti extrasolari ma non attraverso l’analisi spettroscopica. Consente invece di discernere gli esopianeti gassosi da quelli rocciosi [immagine d’archivio]. Keystone / A. Conigli / Esa Handout

Lo studio di Balbi e Grimaldi non verte su come leggere la singola spettroscopia, ma sulla portata della scoperta di una firma biologica. Non si chiede quali siano gli esopianeti che possono ospitare la vita ma quanti siano.

“Ci vorrà il telescopio spaziale successore di Hubble, il James Webb Space Telescope che forse sarà lanciato il prossimo anno, o strumenti dedicati come il satellite Ariel dell’ESA che mira alla caratterizzazione degli esopianeti e delle loro atmosfere, e se siamo fortunati riuscirà a farlo anche con pianeti di tipo terrestre. Infine, avremo grossi telescopi costruiti a terra. Ma sono cose che rientrano in un arco temporale di una ventina d’anni”.

“Questo tipo di indagine verrà effettuato su un campione molto limitato, si pensa tra 5 e 10 pianeti”, premette Grimaldi. “Nella migliore delle ipotesi, riusciremo a osservare delle firme biologiche in pianeti in un raggio di circa 100 anni luce dalla Terra. Questo è un volume di spazio estremamente piccolo rispetto a quello della galassia. La Via Lattea contiene circa 10 miliardi di esopianeti di tipo “terrestre” che orbitano attorno a stelle di tipo “sole”, ma noi potremo fare questa analisi spettroscopica su un’infinitesima parte”.

Da qui la necessità di un modello statistico per trarre delle conclusioni. E se però non si trovasse alcuna firma biologica? “Non si potrebbe escludere che ci sia vita altrove, magari in pianeti più lontani, perché se prendo un secchio, lo immergo nel mare e non trovo nessun pesce questo non vuol dire che non ci sono pesci nel mare; il campione è troppo piccolo rispetto alla vastità dell’oceano”.

“Ma proprio per il fatto che il campione che andremo a osservare è così piccolo”, spiega Grimaldi, “se dovessimo trovare anche una sola firma biologica, ci troveremmo di fronte alla possibilità che la galassia sia estremamente popolata di pianeti che hanno forme di vita più o meno microscopiche”.

Ottimisti o pessimisti

Partendo da una posizione agnostica -riguardo l’esistenza o meno di vita al di fuori della Terra- e supponendo che la vita si sia prodotta in maniera indipendente sui pianeti -e pertanto la galassia sia popolata in maniera uniforme- l’équipe ha stimato che una sola firma biologica entro 100 anni luce vuol dire circa 100’000 pianeti con forme di vita in tutta la Via Lattea. Se poi il volume di spazio entro il quale si trova un segno è ancora più piccolo, allora il numero di pianeti presumibilmente abitati sarà ancora più grande.

C’è vita altrove? Qualche risposta in questo video di Swissinfo.

La stima può però variare con l’attitudine -agnostica, ottimista o pessimista- e il modo in cui si ritenga sia nata la vita: per abiogenesi (generazione spontanea) o biogenesi (trasmessa da esseri viventi preesistenti).

Gli astronomi sono generalmente ottimisti: ritengono che se ci sono 10 miliardi di pianeti simili alla Terra, è probabile che ne esistano altri abitati. I chimici, biologi e geologi sono piuttosto pessimisti, perché la vita ha bisogno di tutta una serie di particolari condizioni per essere mantenuta. Lo studio tiene conto di queste differenti posizioni che tuttavia, chiarisce Balbi, non incidono sul numero di pianeti che offrono condizioni adatte alla vita, ma semmai sullo scarto tra pianeti abitabili e la stima di quelli effettivamente abitati.

Va infine considerato che la vita potrebbe essersi sviluppata non in modo indipendente ma “portata da un sistema stellare all’altro, in forme microscopiche intrappolate in piccoli asteroidi o comete che vanno, per così dire, a fecondare un altro pianeta”. La teoria descritta da Grimaldi si chiama panspermia e “anche questa si può studiare da un punto di vista statistico”; in linea molto generale comporta che i pianeti più vicini alla Terra hanno più probabilità di quelli lontani di ospitare la vita. Ciò “farebbe abbassare significativamente la stima del numero di pianeti totali che hanno vita nella galassia”. 

Il metodo

Per sviluppare il loro modello originale, i ricercatori si sono rifatti alle probabilità bayesiane, una tecnica statistica basata sul grado di credibilità che è particolarmente adeguata in presenza di piccoli campioni di dati, rileva un comunicato dell’EPFL.

“L’indagine scientifica non parte mai da una tabula rasa, abbiamo sempre qualche conoscenza pregressa, che come in questo caso può anche essere estremamente frammentaria, ma c’è sempre. Quello che abbiamo fatto noi è stato separare tutti i vari elementi e ricavarne un modello matematicamente e probabilisticamente rigoroso”.

“Se uno osserva un elefante nel proprio giardino a Losanna”, prosegue Balbi, “trarrà una conclusione sulla base di quel che già si conosce, ad esempio la distribuzione della specie in alcune regioni della Terra e non in altre. Ne concluderà che probabilmente c’è un circo dal quale è scappato l’animale. Questo è il lavoro che facciamo”.

Come facciamo a essere sicuri che attorno alle miliardi di stelle dell’universo ruotano miliardi di pianeti? La risposta in questo video di Swissinfo.

Concretamente, dalle osservazioni effettuate dal 1995 in poi si sono ricavate stime o informazioni sul numero di esopianeti nella galassia, la loro distribuzione, la distanza dalla loro stella (perché si possa sviluppare la vita, non dev’essere eccessiva) e altri fattori astrofisici.

In conclusione, se questo studio fosse stato effettuato 25 anni fa -con le conoscenze di allora- avrebbe forse raggiunto conclusioni diverse. Analogamente, gli studi degli anni venturi potranno essere più accurati o riservare sorprese: la conoscenza degli esopianeti, in fondo, è ancora tutta da scrivere.  

La sintesi dello studio su epfl.chCollegamento esterno
Il comunicato su uniroma2.itCollegamento esterno
Lo studio su PNASCollegamento esterno


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