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Cotone biologico, la merce rara dell’Africa

I produttori di cotone biologico del Mali non riescono a soddisfare la domanda Keystone

Rispettoso dell'ambiente e socialmente sostenibile, il cotone certificato Max Havelaar sta vivendo un vero e proprio boom. Tutti lo vogliono, dai consumatori alle grandi aziende.

A coltivarlo sono però in pochi e il progetto di produzione biologica ed equo solidale dell’associazione Helvetas in Africa non soddisfa la domanda.

Matou Kely non crede ai propri occhi. La T-shirt acquistata in Svizzera e regalatale da un collaboratore di Helvetas potrebbe provenire proprio dalle sue piante di cotone.

Quando un paio di anni fa ha deciso di avvicinarsi alla coltivazione biologica ed equo solidale (fair trade), la giovane contadina del Mali non poteva immaginare che un giorno avrebbe avuto tra le mani il prodotto finito. Non poteva nemmeno prevedere che il suo cotone sarebbe diventato una merce contesa in tutto il mondo.

«Tutti vogliono il cotone biologico e fair trade», rileva Tobias Meier, responsabile del commercio equo presso l’associazione svizzera Helvetas. «La domanda supera di dieci volte l’offerta».

Mercato in costante crescita

Il successo del cotone coltivato senza pesticidi chimici e trasformato secondo gli standard internazionali del commercio equo è confermato dalla fondazione svizzera di certificazione Max Havelaar. Nel 2006, la vendita di magliette, pigiami, asciugamani di spugna, cotone cosmetico e calze ha totalizzato 5,7 milioni di franchi. Una cifra d’affari in crescita del 72% rispetto all’anno precedente.

«E per quest’anno ci aspettiamo un aumento del 100%», prevede il responsabile Tessili di Max Havelaar, Roman Wittwer, cosciente del fatto che in nessun altro paese viene venduto così tanto cotone biologico come in Svizzera.

Ad essere attirati dagli articoli distribuiti da Switcher, Migros, Coop e Manor (solo per citarne alcuni) non sono soltanto i consumatori – i quali sono pronti a pagare un sovrapprezzo del 15-20% – ma pure le grandi ditte.

Sulla scia della polizia cittadina di Zurigo (che ha testato l’uso di centinaia di camicie in cotone biologico), aziende come la Posta e le Ferrovie federali svizzere (FFS) – complessivamente 100mila dipendenti – hanno già manifestato il loro interesse.

Un interesse duraturo?

Nonostante i progetti di Helvetas in Mali, Burkina Faso e Senegal si stiano sviluppando a pieno regime (il numero di agricoltori, le superfici riconvertite e i quantitativi raddoppiano di anno in anno), la produzione biologica ed equo-solidale rimane un mercato di nicchia.

Attualmente, soltanto lo 0,1% delle 25 milioni di tonnellate di cotone prodotte nel mondo proviene da coltivazioni biologiche. E solamente una minima parte è certificata “fair trade”.

La differenza potrebbe farla l’entrata in scena di alcuni grandi nomi – Nike, Adidas, Levis o Wall Mart – i quali hanno effettuato ordinazioni per migliaia di tonnellate.

Una partecipazione vista di buon occhio da Tobias Meier, anche se le preoccupazioni non mancano. «La riconversione dei campi necessita di tempo: tra due o tre anni, quando la domanda sarà soddisfatta, i compratori saranno ancora interessati?», s’interroga.

I timori del collaboratore di Helvetas sono giustificati: «Negli anni ’90, i primi acquirenti volevano dei prodotti biologici al 100%, quindi senza coloranti», spiega. «I tessuti color grigio e beige non sono tuttavia piaciuti e il cotone biologico è rimasto invenduto. È così finito sul mercato internazionale, dove è stato contrattato al basso prezzo del cotone convenzionale».

Una filosofia, non una moda

I commercianti del Nord che aspettano con impazienza il cotone biologico dell’Africa si vogliono rassicuranti: il loro interessamento non è un fenomeno temporaneo, ma un impegno a lungo termine.

«Il cotone fair trade non è una moda. Per noi è una filosofia di produzione, che accontenta i consumatori sensibili alle questioni sociali e ambientali», ci dice Christophe Lambert della ditta francese TDV Laval.

Il fabbricante di tessuti per abiti industriali stima che il 10% della sua clientela (tra cui figurano anche le FFS) è interessata al prodotto. In futuro, sostiene, la quota salirà al 30%.

Prezzi e qualità

C’è però una condizione che va rispettata: la qualità. Se da una parte i contadini africani chiedono una rimunerazione maggiore (la produzione biologica necessita di parecchio lavoro), dall’altra gli acquirenti vorrebbero che l’aspetto qualitativo fosse considerato in primo piano.

Il rischio è che entrambe le richieste rimangano senza esito. Helvetas, che intende rendere autonoma la filiera, non esclude di abbassare leggermente il prezzo d’acquisto per integrare i costi di formazione e di assistenza sostenuti finora, grazie al contributo della Confederazione.

Le cooperative di produttori biologici in Africa, dal canto loro, saranno chiamati a garantire la qualità di campi di cotone sempre più estesi. Non sarà facile ispezionare, come fanno oggi, tutte le parcelle una volta al mese.

Deviazioni poco ecologiche

Una soluzione potrebbe passare dallo sviluppo di un’industria tessile locale. «Il 99% del cotone del Mali viene esportato, per lo più in Asia. Idealmente sarebbe meglio avere delle industrie in loco», osserva Tobias Meier. «Stiamo d’altronde pensando a come realizzare questa ulteriore tappa del progetto».

Di non facile concretizzazione (alcuni test in passato sono falliti), la nuova proposta di Helvetas avrebbe anche il merito di rivitalizzare l’economia locale. E di evitare al cosiddetto cotone “biologico” delle lunghe – e inquinanti – deviazioni attraverso gli stabilimenti asiatici, prima di essere venduto sugli scaffali europei.

swissinfo, Luigi Jorio, di ritorno dal Mali

Nel mondo sono prodotte circa 25 milioni di tonnellate di cotone convenzionale all’anno.
Nel 2002, 174 contadini di Mali, Burkina Faso e Senegal hanno prodotto 47 tonnellate di cotone biologico ed equo-solidale.
Nel 2007 i coltivatori sono 6895 e la produzione di circa 1980 tonnellate.
L’organizzazione di certificazione FLO stima che nel 2010 saranno prodotte nel mondo 29mila tonnellate di cotone biologico e fair trade.

La produzione di cotone biologico esclude l’utilizzo di pesticidi, fertilizzanti ed erbicidi chimici, così come l’impiego di organismi geneticamente modificati.

Il terreno è arricchito con concimi naturali, letame e composti organici. Per la lotta ai parassiti si fa uso di decotti di piante repulsive (come la Neem in Mali) o di cosiddette piante “trappola”.

La rotazione delle colture, cardine dell’agricoltura biologica, consente poi di creare nuove fonti di reddito (dopo il cotone si piantano mais, sesamo, cereali e leguminose) e di variare la dieta.

La produzione biologica prevede inoltre l’applicazione di misure di risparmio e di protezione delle risorse idriche.

Il commercio equo-solidale (fair trade) del cotone garantisce ai produttori un prezzo minimo fisso, il quale copre i costi di produzione ed assicura un reddito decente.

A tale prezzo, stabilito dall’organizzazione di certificazione FLO, viene aggiunto un premio che ha lo scopo di aiutare a migliorare le condizioni di vita della comunità agricola. L’utilizzo del premio è deciso dai membri della cooperativa in modo democratico.

Attualmente, il prezzo del cotone fair trade del Mali è di 238 franchi CFA al Kg (0,60 franchi), mentre sul mercato internazionale il cotone convenzionale è acquistato a 160 CFA/Kg. Il premio è invece di 34 CFA.

La Fondazione elvetica Max Havelaar verifica che tutte le tappe della filiera del cotone rispettino i criteri sociali prestabiliti.

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