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Contrasto alle mafie: la “difesa passiva” che fa ancora difetto alla Svizzera

operaio cammina in una galleria ferroviaria
Una ditta che ha partecipato alla costruzione della galleria ferroviaria Losanna-Echallens-Bercher, nel Cantone di Vaud, è in odore di mafia in Italia. © Keystone / Laurent Gillieron

Tra la revisione del Codice penale e l'applicazione di misure amministrative mirate, in Svizzera la pressione giudiziaria e di polizia sulle mafie sta aumentando. Mancano però una banca dati comune per la polizia e altre misure di sorveglianza che permetterebbero di contrastare le infiltrazioni mafiose nei settori economici più appetibili o più colpiti dalla crisi attuale.

Alla mafia la Svizzera piace, non lo si ripeterà mai abbastanza, ma perché esattamente? Il procuratore milanese Pasquale Addesso ha dato una risposta molto semplice nel novembre 2021, all’indomani della doppia operazione “Nuova Narcos Europea – Cavalli di razza”: “La Svizzera è un territorio fondamentale. Alcune persone legate alla ‘ndrangheta hanno trasferito le loro attività in Svizzera, dove il sistema è meno severo”. 

Meno severo è una parola non abbastanza forte, e i mafiosi lo sanno bene, nonostante la pena massima per appartenenza a organizzazione mafiosa sia stata portata da cinque a dieci anni di reclusione.

Una punizione trascurabile in questo mondo, dove la nozione di prigione o di morte fa parte del contratto: “Sono pieno di galera… mi sono fatto 6 anni di galera … pure che sono pochi 6 anni di galera…”, ha ad esempio affermato Michelangelo Larosa, uno degli otto mafiosi arrestati nell’ambito dell’operazione “Cavalli di razza”, che è anche domiciliato a Zurigo e possiede un permesso di dimora.

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Misure preventive

L’idea che la mafia sia “benigna”, un fenomeno divertente o affascinante, viene rapidamente smontata quando si osserva la carriera criminale degli affiliati arrestati in Svizzera, quasi tutti membri della ‘ndrangheta e spesso ben inseriti nella gerarchia dell’organizzazione. L’effetto collaterale di questo malinteso è che l’opinione pubblica svizzera non ha idea delle sofferenze e dei danni – sociali, economici, individuali – che le mafie causano nei loro territori d’origine.

L’idea che esista una mafia ‘benigna’ risale a molto tempo fa. Nel 1876, il marchese Antonio di Rudinì, sindaco di Palermo e futuro presidente del Consiglio dei ministri, dichiarò: “Ma che cosa è questa mafia? Io dico che è anzitutto una mafia benigna. La mafia benigna è quella specie di spirito di braveria, quel non so che di disposizione a non lasciarsi soverchiare, ma piuttosto soverchiare. Dunque mafioso benigno per così dire potrei esserlo anche io”.

Tutte le operazioni che coinvolgono la Svizzera mostrano l’estensione e la capillarità delle reti mafiose, ed è necessario concentrarsi su un elemento essenziale, i legami familiari, una sorta di ius sanguinis criminale che determina il “diritto” di appartenere all’organizzazione. Nessun mafioso attraversa il confine – legalmente o illegalmente – senza l’aiuto di un parente o di una rete già consolidata. Ciò si verifica sistematicamente e non è quindi un caso che Fedpol si affidi a misure amministrative preventive che permettono di vietare l’ingresso o di espellere persone potenzialmente pericolose: dal 2018 sono stati allontanati dal territorio una ventina di individui legati a un’organizzazione criminale, molti dei quali condannati in Italia per appartenenza alla mafia.

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Se da un lato queste misure sembrano dar prova di una certa efficienza, bisogna però rilevare anche una sorprendente lacuna: l’assenza di una banca dati nazionale alla quale qualsiasi poliziotto può avere accesso durante un controllo o nel suo lavoro investigativo.

Manca una banca dati nazionale

Il problema sarebbe potuto passare quasi inosservato se il Partito liberale radicale ticinese non avesse recentemente rilanciato il “grido d’allarme” espresso sulla rivista “Police”, l’organo di comunicazione ufficiale della Federazione svizzera dei funzionari di polizia (FSFP). Intervistato nel numero di marzo 2022 della rivista, il capo della Rete nazionale per il controllo del crimine informatico (NEDIK), Günal Rütsche, conferma: “La constatazione è corretta, non esiste una banca dati comune. Se vogliamo scambiare informazioni, dobbiamo chiedere separatamente al Governo federale e ai 26 cantoni, il che è completamente obsoleto”.

Vi sono già soluzioni tecniche per lo scambio automatizzato di dati, ma mancano le basi legali. Queste esistono, per esempio, nella Svizzera francese, dove lo scambio di informazioni è regolato da diversi anni da un concordato. Nella Svizzera tedesca, alcuni cantoni si sono anche organizzati in concordati, per esempio il Polizeikonkordat Nordwestschweiz (PKNW – concordato di polizia della Svizzera nord-occidentale), ma non è definitivo.

Il modello italiano

Si è ben lontani dalle banche dati interforze che esistono in Italia, in particolare l’SDI (per Sistema di Indagine), che permette a qualsiasi inquirente autorizzato di utilizzare i dati e di ricostruire la carriera giudiziaria di una persona, da un banale controllo di polizia agli illeciti penali e amministrativi.

A parte le polemiche sul diritto all’oblio, la protezione dei dati e la soppressione di determinate informazioni dopo 20 anni, l’SDI è uno strumento indispensabile per garantire la continuità delle indagini e, nel caso del crimine organizzato, per orientarsi nella catena della contaminazione mafiosa.

Altre misure di tipo amministrativo permettono di tenere d’occhio certe categorie di imprese esposte al rischio di infiltrazione mafiosa (trasporti, sicurezza, gestione dei rifiuti e degli inerti, edilizia, ecc.). Queste aziende sono obbligate ad iscriversi nella “lista bianca” della loro prefettura di riferimento se vogliono svolgere la loro attività senza dover fornire di volta in volta delle “informazioni antimafia”.

Altri due strumenti preventivi regolano la partecipazione alle gare d’appalto: la “certificazione antimafia”, rilasciata dalle prefetture e valida per sei mesi, e il suo esatto contrario, l'”interdittiva antimafia”, una decisione equivalente a un’esclusione di 12 mesi dagli appalti pubblici.

Certificati che non sono una garanzia

Le certificazioni antimafia non sono una garanzia infallibile, e alcune aziende colpevoli di patti con la mafia hanno già messo più di un piede in Svizzera. Ad esempio, il gruppo romano Condotte SpA, specializzato in lavori pubblici, si è visto ritirare il certificato nel 2008 per un caso di subappalto – sotto la supervisione della ‘ndrangheta – sull’autostrada Salerno-Reggio Calabria. Il problema era che Condotte SpA era allora membro del consorzio italo-svizzero Condotte-Cossi, e si era aggiudicato la gara d’appalto per i lavori strutturali della galleria ferroviaria di base del Monte Ceneri.

Qualche tempo dopo, in seguito al crollo di una galleria sulla stessa autostrada, cinque dirigenti locali di Condotte sono stati arrestati per associazione mafiosa. L’ultimo colpo di scena che ha visto protagonista il gruppo è stato l’arresto nel 2018 del suo presidente, Duccio Astaldi, accusato di aver accettato tangenti in relazione alla costruzione dell’autostrada Siracusa-Gela in Sicilia. Vale anche in questo caso il principio della presunzione d’innocenza.

Tornando alla galleria di base del Ceneri, un’altra società romana e membro del consorzio Mons Ceneris, che aveva vinto l’appalto per il lotto “binari e logistica”, è stata coinvolta in una vicenda giudiziaria nel febbraio 2022: Alessandro ed Edoardo Rossi, rispettivamente direttore e presidente di Generali Costruzioni Ferroviarie (GCF), sono stati messi sotto inchiesta dalla procura antimafia di Milano, che si è interessata da vicino al controllo esercitato dalla ‘ndrangheta sui cantieri di manutenzione della rete ferroviaria italiana. In questo caso, Edoardo Rossi, membro del consiglio di amministrazione della filiale svizzera della GCF di Bellinzona, è accusato di aver “partecipato a un’attiva associazione criminale tra Varese e Milano” e di avere “legami solidi e duraturi con la ‘ndrangheta”. Interrogato dalla radio pubblica RSICollegamento esterno l’avvocato svizzero di GCF, Emanuele Stauffer, ha rigettato queste accuse e ha precisato che il giudice italiano incaricato delle indagini preliminari ha rifiutato di adottare misure preventive nei confronti dei fratelli Rossi, ritenendo insufficienti le prove acquisite.  

La GCF è stata anche presa di mira da diversi sindacati – in particolare in Svizzera e in Danimarca – per dumping salariale e varie violazioni della sicurezza dei lavoratori. A causa di queste accuse, la società ha rischiato di perdere l’appalto per la costruzione della linea ferroviaria regionale Losanna-Echallens-Bercher (LEB). A conti fatti, il progetto “porterà l’impronta anche di GCF”, come annuncia con orgoglio l’azienda sul suo sito web.

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L interno della galleria di base del Monte Ceneri.

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