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Confermata condanna del negazionista Perincek

Keystone

La condanna del politico turco Dogu Perincek per avere negato il genocidio armeno, emessa dalla giustizia vodese, è stata corretta.

Lo ha stabilito la Corte suprema svizzera in una sentenza pubblicata mercoledì. La pena pecuniaria sospesa condizionalmente e la multa comminate al presidente del Partito dei lavoratori della Turchia è confermata.

In Svizzera la condanna è dunque definitiva. Ma “la partita non è finita”: il nazionalista turco si rivolgerà infatti alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, ha fatto sapere mercoledì il suo avvocato svizzero Laurent Moreillon. Il legale non ha ancora ottenuto una reazione ufficiale del suo cliente, ma è già certo che – per una questione di principio – si rivolgerà all’istanza superiore.

Dogu Perincek aveva contestato pubblicamente l’esistenza di uno sterminio programmato della minoranza armena durante la prima guerra mondiale: in discorsi pronunciati a Losanna, Opfikon (Zurigo) e Köniz (Berna) aveva fra l’altro parlato di una “menzogna internazionale”.

Già condannato in primo e in secondo grado

Nel marzo scorso il Tribunale di polizia di Losanna lo aveva condannato a una pena pecuniaria di 9000 franchi, sospesa con la condizionale per due anni, più una multa di 3000 franchi. Aveva inoltre accollato al 65enne i costi giudiziari e gli aveva imposto il pagamento di 1000 franchi all’Associazione Svizzera-Armenia (ASA) a titolo di torto morale.

La sentenza – giudicata razzista e imperialista dall’interessato, che aveva paragonato il procedimento a quello in uso presso l’Inquisizione spagnola – era stata confermata in giugno dalla corte di cassazione del canton Vaud.

Il genocidio armeno è riconosciuto storicamente

Perincek si era quindi rivolto al Tribunale federale (TF, Suprema corte elvetica) di Losanna, rimproverando sostanzialmente alla giustizia vodese di non aver proceduto a un’istruzione sufficiente per determinare se i massacri fossero avvenuti realmente.

I giudici gli hanno risposto che scrivere la storia non incombe all’autorità penale: vi è un consenso generale, sia fra gli storici che in un pubblico più ampio, che il genocidio del popolo armeno da parte dell’Impero ottomano nel 1915 è un fatto realmente avvenuto.

L’imputato non ha citato alcun elemento preciso che dimostri come questo consenso non esista: secondo la corte non ha alcuna importanza che alcuni Stati abbiano scelto di non riconoscere pubblicamente il genocidio, perché a questo proposito entrano in considerazione motivi di opportunità politica. Lo stesso avviene per esempio per l’Olocausto degli ebrei.

Non è quindi decisivo il fatto che il governo svizzero – contrariamente alla Camera bassa del parlamento – abbia ad esempio evitato di riconoscere il genocidio e che lo stesso esecutivo federale abbia caldeggiato presso le autorità turche la creazione di una commissione internazionale di storici per analizzare il tema.

Consapevolmente razzista e nazionalista

Secondo il TF, Perincek ha inoltre agito spinto da motivazioni razziste e nazionaliste, al di fuori del dibattito storico. L’interessato ha operato in piena cognizione di causa, dichiarando fra l’altro che non cambierà mai opinione, anche se una commissione neutrale dovesse raggiungere una conclusione opposta alla sua.

La sentenza non è inoltre contraria alla libertà d’espressione garantita dalla Convenzione europea dei diritti umani. Perincek avrebbe infatti dovuto sapere che le sue affermazioni lo avrebbero esposto ad una denuncia in Svizzera. La condanna intende proteggere la dignità umana della comunità armena.

L’articolo 261bis del Codice penale svizzero punisce fra l’altro chi “disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità”.

Raffreddamento delle relazioni svizzero-turche

Le inchieste avviate in Svizzera nei confronti di Perincek e dello storico Yusuf Halacoglu hanno portato a un raffreddamento delle relazioni fra Berna e Ankara.

Queste vicende sono poi state all’origine anche di un aspro dibattito nella Confederazione, dopo che il ministro della giustizia Christoph Blocher, in visita in Turchia, il 4 ottobre 2006 aveva dichiarato che l’articolo gli faceva venire il “mal di pancia”. Blocher si era rammaricato al riguardo con il collega turco Cemil Cicek, esponendosi in tal modo alle critiche di chi gli rimproverava di aver messo in discussione una legge votata dal popolo, e per di più all’estero.

Una “prima mondiale” e un “segnale per gli altri paesi”

All’annuncio della conferma della condanna di Perincek da parte della Corte suprema, l’ambasciata di Turchia a Berna mercoledì non ha voluto rilasciare alcun commento. La sede diplomatica ha spiegato di volere esaminare la sentenza prima di pronunciarsi.

L’Associazione Svizzera-Armenia ha invece immediatamente espresso soddisfazione per quello che interpreta come “un segnale agli altri Paesi”. “È la prima volta a livello mondiale che una corte suprema di diritto penale pronuncia una condanna per negazionismo del genocidio degli armeni”, commenta l’ASA, secondo la quale la più alta istanza giuridica elvetica non lascia più alcun dubbio sul fatto che gli avvenimenti del 1915 costituiscano un genocidio.

Il presidente della Commissione federale contro il razzismo Georg Kreis si è dal canto suo rallegrato che l’alta corte abbia confermato il senso della legge, ossia che non si può negare un genocidio.

swissinfo e agenzie

Durante la Prima Guerra mondiale, gli imperi ottomano e russo si dividono il territorio del popolo armeno.

Dall’aprile 1915, i turchi deportano massicciamente gli armeni nei deserti iracheni.

Secondo gli armeni i morti avrebbero superato il milione e mezzo, secondo i turchi sarebbero stati circa 200mila.

La norma penale contro il razzismo (articolo 261bis del Codice penale) è stata approvata nel 1994 in votazione federale con una maggioranza del 54,7%.

Le disposizioni legali, entrate in vigore nel 1995, vietano ogni forma di incitazione all’odio o alla discriminazione di persone che appartengono ad altre razze, etnie o religioni. È pure punibile la negazione di un genocidio.

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