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1848, i volontari partono alla guerra

Volontari della colonna Vicari-Simonetta, tra i primi a giungere a Milano a dar man forte ai rivoluzionari Bersaglieri dal Ticino Svizzero

Le cinque giornate di Milano e la prima guerra d'indipendenza italiana sono passate alla storia anche per i volontari accorsi da ogni dove per sostenere l'insurrezione contro gli austriaci. Tra di loro anche molti svizzeri.

I moti del 1848 rappresentano probabilmente l’apice del fenomeno del volontariato politico in Italia, dell’idea della “guerra di popolo” – in contrapposizione alla guerra regia – caldeggiata in particolare da Giuseppe Mazzini.


La notizia dello scoppio della rivolta contro le truppe austriache il 18 marzo a Milano si propaga rapidamente. Da tutta Italia iniziano ad affluire verso la Lombardia migliaia di volontari venuti a combattere a fianco dei rivoluzionari milanesi. Anche in Svizzera – e in Ticino in particolare – le élite liberali si organizzano velocemente per accorrere in sostegno degli insorti. La colonna guidata dal ticinese Antonio Arcioni, ad esempio, arriva a Como già il 19 marzo e il 24 entra a Milano assieme a un altro gruppo di volontari ticinesi, capeggiati da Natale Vicari e Francesco Simonetta.

L’insurrezione, seguita il 23 marzo dalla dichiarazione di guerra all’Austria da parte del re di Sardegna Carlo Alberto, trova ampio eco anche nella Svizzera tedesca e francese, tanto che nelle settimane e nei mesi successivi, giungono nel Nord Italia le colonne del vodese Constant Bourgeaud, del bernese Johann Christian Ott e del turgoviese Johannes Debrunner. Questi gruppi sono composti da alcune decine fino a diverse centinaia di uomini.

Ruolo secondario

La prima offensiva di tutta la campagna militare è del resto condotta proprio da questi reparti irregolari, posti sotto il comando di Michele Napoleone Allemandi, colonnello dell’esercito svizzero che l’anno precedente aveva partecipato alla guerra del Sonderbund a fianco del generale Dufour. In aprile Allemandi penetra nel Trentino e punta su Trento, ma l’azione fallisce, anche per la mancata assistenza dell’esercito piemontese.

«Il fenomeno dei volontari è forse stato un po’ sopravvalutato, militarmente non hanno influito più di quel tanto sulla guerra. È però altrettanto vero che per l’ideologia rivoluzionaria e la glorificazione della rivoluzione è stato un fatto importante», spiega Carlo Moos, professore di storia all’Università di Zurigo.

Dopo la fallita offensiva di Allemandi, che rassegna le dimissioni, i volontari sono impiegati praticamente sino alla fine della guerra in ruoli secondari, ad esempio nella difesa delle posizioni lungo il confine con il Tirolo. Compiti poco adatti a queste truppe irregolari, desiderose soprattutto di battersi. Inoltre, l’incorporazione nell’esercito piemontese provoca la defezione di molti di loro, che sdegnano «servire l’ambizione di un re», come scrive un volontario ticinese.

I comandanti dell’esercito piemontese non vedono di buon occhio questi corpi franchi, che mal si addicono alla guerra di posizione e di logoramento – strategia prudente rivelatasi però fallimentare – portata avanti da Carlo Alberto. Inoltre, essendo spesso repubblicani, i volontari non sono certo ben predisposti nei confronti della monarchia sabauda. Infine, i continui e gravi problemi di indisciplina non contribuiscono di certo a migliorare la fama dei volontari, osserva Carlo Moos. Johann Ott, ad esempio, durante una ritirata viene preso a fucilate dai suoi stessi uomini.

Volontari e mercenari

I volontari elvetici, soprattutto quelli di lingua tedesca, sono confrontati anche a un altro problema: spesso sono infatti associati ai mercenari, in particolare a quelli al servizio del re di Napoli, e quindi guardati con una certa diffidenza.

Del resto, come ricorda Carlo Moos in uno studio dedicato alla colonna Debrunner, alcuni dei suoi membri si sono in un primo tempo arruolati per Napoli, ma sono poi andati a Venezia, senza preoccuparsi di aver così cambiato bandiera.

«Era una situazione effettivamente assurda, perché nel Nord Italia vi erano dei volontari svizzeri che combattevano per la rivoluzione, mentre a Napoli i reggimenti mercenari erano al servizio della controrivoluzione», osserva Moos.

Ma cosa spingeva questi uomini ad andare a combattere una guerra che in fondo non era la loro? «Naturalmente tutti avevano una predisposizione per la causa rivoluzionaria, soprattutto i ticinesi, che appartenevano a una certa élite. In alcuni casi però i motivi sono difficili da capire, perché un conto è andare rapidamente a Milano per partecipare alla rivoluzione, un altro è partecipare a una guerra che si trascina per mesi – osserva Carlo Moos. Nel suo libro di memorie, ad esempio, Johannes Debrunner non spiega quali ragioni lo abbiano spinto ad ingaggiarsi per la Repubblica veneziana. Non si capisce se sia stato per spirito d’avventura o perché magari aveva fiutato l’affare (Debrunner aveva stipulato un contratto di servizio di due anni, ndr)».

Richiesta di intervento militare

Il contributo della Svizzera alla causa rivoluzionaria avrebbe potuto essere ben più importante, se l’iniziativa dell’inviato sabaudo a Berna Paolo Racchia fosse andata in porto.

«Racchia, non si sa se di propria iniziativa o se su richiesta di re Carlo Alberto, è intervenuto presso la Dieta federale per sondare la possibilità di un’alleanza. Alcuni radicali, come il sindaco di Lugano Giacomo Luvini, sarebbero stati disposti a partecipare alla guerra, ma sono rimasti minoritari e la Dieta ha respinto la proposta», spiega Moos.

Un ‘no’ «giustificato», analizza lo storico zurighese. «È difficile credere che la Svizzera avrebbe potuto modificare il corso della guerra. L’Austria, seppur indebolita dai moti del ’48, restava una grande potenza e la Confederazione molto probabilmente sarebbe rimasta coinvolta nella disfatta. La Svizzera non era un campione della difesa delle libertà altrui, ma tentava giustamente di sopravvivere, di difendere gli interessi della Confederazione ancora da costruire».

La prima guerra d’indipendenza italiano è il primo dei tre conflitti che oppose il Regno di Sardegna (che nel 1861 diventerà il Regno d’Italia) all’Impero austriaco.

Re Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria all’indomani della conclusione delle cinque giornate di Milano (18-22 marzo 1848), durante le quali il feldmaresciallo Radetzky era stato costretto ad abbandonare la città.

Il grosso dell’esercito sardo-piemontese varcò il Ticino il 26 marzo, ma si mosse con troppa lentezza all’inseguimento delle truppe di Radetzky, che riuscirono a riparare senza perdite nella fortezza del Quadrilatero.

Il 30 aprile i due eserciti si affrontarono per la prima volta a Pastrengo, a nord di Verona. La battaglia volse a favore dei piemontesi, che però non raccolsero i frutti della vittoria, permettendo agli austriaci di ritirarsi con ordine.

Il 30 maggio Radetzky passò a sua volta all’offensiva, tentando di sloggiare le truppe di Carlo Alberto dalle posizione sul fiume Mincio, in quella che è passata alla storia come la battaglia di Goito. L’attacco fu però respinto e lo stesso giorno la guarnigione austriaca asserragliata nella fortezza di Peschiera si arrese.

Il feldmaresciallo austriaco, che aveva ricevuto il rinforzo di un corpo d’armata ripassò però subito all’attacco; questa volta con successo, poiché conquistò Vicenza il 10 giugno e batté l’esercito sardo-piemontese nella battaglia di Custoza, tra il 23 e il 25 luglio. Il 5 agosto venne firmata l’armistizio e gli austriaci rientrarono a Milano il 6 agosto.

Carlo Alberto ruppe la tregua il 20 marzo 1849, ma venne sconfitto a Novara tre giorni dopo e abdicò in favore di Vittorio Emanuele II. Un nuovo armistizio fu siglato l’indomani.

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