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Caso Moro: grattacapo per la giustizia elvetica

L'uccisione di Aldo Moro continua ad occupare la giustizia italiana e svizzera. Keystone

Trent'anni dopo l'assassinio del politico democristiano, la Svizzera deve decidere se far scontare ad un suo cittadino - ex brigatista - la condanna all'ergastolo pronunciata in contumacia da un tribunale italiano.

Venerdì 9 maggio 1978: il corpo senza vita di Aldo Moro, ex presidente del Consiglio dei ministri italiano, viene scoperto nel baule di un’auto a Roma. Ad ucciderlo è stato un commando delle Brigate Rosse, di cui fa verosimilmente parte anche lo svizzero Alvaro Lojacono-Baragiola.

Oggi, trent’anni dopo l’assassinio che inaugurò gli anni di piombo, la Svizzera è di nuovo confrontata con il caso Moro. Da tempo dovrebbe rispondere all’Italia, che chiede di applicare la pena di reclusione a vita pronunciata a suo tempo dai tribunali italiani. Spetta ora ad un tribunale del canton Berna prendere una decisione.

Condannato per contumacia

Secondo la giustizia italiana Alvaro Lojacono-Baragiola, oggi 53enne, aveva preso parte all’assassinio di Aldo Moro e della sua guardia del corpo; contro l’ex brigatista era stata pronunciata una condanna in contumacia.

Il caso aveva suscitato scalpore nella stampa svizzera al momento dell’arresto di Lojacono-Baragiola, il 9 giugno 1988 a Lugano, anche perché l’ex brigatista aveva lavorato per diversi anni – e in assoluta discrezione – al servizio della Radio svizzera di lingua italiana come animatore. Aveva infatti preso il nome della madre svizzera come pure la nazionalità. Esclusa pertanto l’estradizione verso l’Italia, dal momento che la Confederazione svizzera non estrada i propri cittadini.

Mancanza di prove

Alvaro Lojacono-Baragiola aveva comunque dovuto fare i conti con la giustizia svizzera. Nel 1989 la Corte delle assise criminali di Lugano lo aveva infatti condannato all’ergastolo per l’assassinio del giudice italiano Girolamo Tartaglione, commesso nel 1978. La condanna di prima istanza era poi stata ridotta a 17 anni di reclusione con una sentenza di seconda istanza.

La procedura avviata per un’eventuale partecipazione all’assassinio di Aldo Moro era stata archiviata per mancanza di prove. Gli autori del delitto condannati in Italia si erano rifiutati di testimoniare davanti alla giustizia elvetica. Dopo nove anni di detenzione, Baragiola ha ottenuto la semilibertà nel 1997 per seguire corsi di giornalismo e nell’ottobre 1999 è tornato in libertà.

Sulla base di un mandato d’arresto internazionale spiccato dall’Italia, l’ex brigatista era stato arrestato nel 2000 mentre trascorreva le vacanze in Corsica. La Francia si è però rifiutata di estradare Lojacono-Baragiola verso l’Italia, dal momento che la condanna in contumacia non è riconosciuta dal diritto francese. Ha dunque potuto tornare liberamente in Svizzera.

L’Italia non fa un passo indietro

Eppure l’Italia non fa un passo indietro e persevera nella richiesta di fare applicare le pene emesse dai propri tribunali. Nel 1999 aveva infatti trasmesso alle autorità svizzere una sentenza del 1996 pronunciata dalla Corte di Appello di Roma contro l’ex brigatista, riconosciuto colpevole di aver preso parte all’assassinio di Aldo Moro. La Svizzera aveva allora fatto notare all’Italia che la nuova legge sull’assistenza giudiziaria permetteva di delegare l’applicazione di una pena.

La richiesta formale da parte dell’Italia non si è dunque fatta attendere: nella primavera del 2006 è tornata puntualmente alla carica. In precedenza la giustizia del canton Ticino aveva tentato, invano, di portare il caso davanti al Ministero pubblico della Confederazione; il Tribunale federale aveva però negato, nel 2005, ogni forma di competenza.

Dal Ticino a Berna

Nel frattempo la competenza giuridica del caso, ha cambiato cantone, passando dal Ticino a Berna. Un trasferimento dovuto al trasloco di Alvaro Lojacono-Baragiola, che oggi vive nel canton Berna. E per la giustizia bernese il caso che devono affrontare è unico.

La sezione incaricata dell’applicazione delle pene in seno all’amministrazione cantonale bernese, è entrata in materia dando seguito alla richiesta italiana e ha trasmesso il fascicolo alla Camera d’accusa del Tribunale cantonale. Il 4 aprile del 2007, quest’ultima ha trasmesso il caso al Tribunale distrettuale VIII di Berna-Laupen, affinché si pronunci. Questo tribunale dovrà decidere se la pena italiana può essere scontata in Svizzera.

Il presidente del Tribunale distrettuale non ha voluto rilasciare dichiarazioni sulla procedura in corso. E non ha neppure voluto pronunciarsi sulle preoccupazioni delle autorità italiane in merito ai tempi; non gradirebbero infatti che il caso venisse trascinato fino ad entrare definitivamente in prescrizione. Per ora non è stata ancora fissata nessuna udienza.

agenzia Ap, Balz Bruppacher
(traduzione e adattamento dal francese, Françoise Gehring)

Giovedì 16 marzo 1978, le Brigate Rosse (BR) raggiungono l’apice della loro strategia del terrore. In via Fani, a Roma, un commando composto da circa 19 brigatisti rapisce il Presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, e uccide i cinque componenti della scorta.

Dopo 54 giorni, segnati da ulteriori attentati delle BR, ma anche dalle lettere di Moro dalla cosiddetta “prigione del popolo” brigatista, il 9 maggio 1978 la telefonata del brigatista Valerio Morucci annuncia la morte di Moro. Il corpo viene fatto ritrovare a Roma, nel bagagliaio di un’auto.

Alvaro Lojacono-Baragiola, 53 anni, ha sulle spalle una condanna all’ergastolo nel processo Moro-quater, per il sequestro e l’assassinio di Aldo Moro
(condanna definitiva, 14 maggio 1997) Secondo la giustizia italiana, aveva partecipato al sequestro Moro, facendo parte del commando delle BR.

Lojacono-Baragiola era entrato nella colonna romana delle Brigate rosse dopo una militanza nell’estrema sinistra romana. È stato condannato a 16 anni in relazione all’uccisione dello studente greco di destra Mikis Mantakas, nel 1975.

Dopo alcuni anni di latitanza, si era rifugiato nel Canton Ticino.

Le autorità svizzere lo hanno arrestato nel 1988 a Lugano e lo hanno processato per l’uccisione del giudice Tartaglione. Condannato in prima istanza all’ergastolo, in appello si era visto ridurre la pena a 17 anni di reclusione.

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