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Mentre la montagna riapre in Svizzera, in Italia aspetta

Struttira sulla cima di una montagna
La capanna osservatorio Regina Margherita, gestita dal Club alpino italiano, è a ridosso del confine con la Svizzera nel massiccio del Monte Rosa. È il rifugio alpino più alto d'Europa (4'554 m s.l.m.). Club alpino italiano CAI

In Svizzera si chiamano capanne, in Italia rifugi alpini. Queste strutture rappresentano uno dei fiori all'occhiello del turismo montano nei due Paesi. Con la pandemia di coronavirus e la stagione estiva ormai alle porte, le incognite sono molte.  Ne abbiamo parlato con i responsabili dei rispettivi club alpini.

Confinamento, chiusura, controlli, restrizioni, distanza. In questi termini si concentrano le difficoltà che hanno investito il settore del turismo durante la pandemia di coronavirus. I rifugi montani non fanno eccezione e, sia in Svizzera che in Italia, i club alpini si trovano confrontati con molte incognite.

Nella Confederazione, l’apertura è possibile dall’11 maggio, ma la gioia di poter tornare in attività è arrivata con un boccone amaro, anche se atteso: le direttive volte a garantire la sicurezza di guardiani ed escursionisti.

“Ci sono i due lati della medaglia”, ci spiega Ulrich Delang, responsabile del reparto capanne e infrastrutture del Club Alpino Svizzero (Cas). “Quelli che volevano avere ospiti per la parte finale della stagione invernale sono stati molto contenti, ma le condizioni a cui sono sottoposti sono molto restrittive. C’è la volontà di aprire e ospitare alpinisti, ma dall’altra c’è l’insicurezza rispetto alle misure da mettere in atto”.

Come spiegato in dettaglio sul sito del CasCollegamento esterno, pernottare in un rifugio è ora possibile solo su prenotazione, bisogna portare con sé il proprio sacco letto, il disinfettante e la mascherina sanitaria. E, soprattutto possono essere accolte meno persone. “Anche nelle capanne vale una distanza di due metri tra gli ospiti. Perciò temo che quest’estate avremo circa la metà dei clienti abituali, forse meno”, sottolinea Ulrich Delang.

In vista della stagione estiva, che inizierà nel corso del mese di giugno, i responsabili di alcuni rifugi hanno deciso di non aprire poiché, facendo un calcolo economico, “il santo non vale la candela”. Particolarmente in difficoltà sono le strutture di dimensioni più limitate.

Aspettando il decreto

Dall’altra parte del confine, è ancora attuale lo slogan scelto dal Club alpino italiano durante l’emergenza coronavirus: “Le montagne sanno aspettare”. L’attesa in questi giorni è però per il decreto governativo che renderà nuovamente possibile passare la notte in un rifugio.

Dal 4 maggio, con l’inizio della cosiddetta “fase 2”, i rifugi a bassa quota hanno potuto ricominciare a offrire un servizio di ristorazione “take-away”. Una dozzina si sono organizzati in tal senso.

“È un primo segnale di riapertura e chi l’ha fatto ha avuto un’esperienza positiva”, racconta Antonio Montani, vicepresidente del Club Alpino italiano (Cai) Collegamento esternocon delega ai rifugi. Certo, il servizio take-away non può bastare a salvare una stagione. Tutto dipenderà dalla tempistica e dai contenuti dei decreti. L’ipotesi di una riapertura dal 18 maggio è piuttosto inverosimile e il Cai si aspetta una ripresa dell’attività in giugno.

“C’è attesa per noi, ma soprattutto per le famiglie che gestiscono i rifugi”, sottolinea Antonio Montani. “Sono quelle le realtà più in difficoltà. Le società soffrono ma vanno avanti, per alcune famiglie invece il rifugio è l’unica fonte di sostentamento. Per cui l’idea di non riaprire o avere una stagione particolarmente sacrificata è qualcosa che va a incidere parecchio sui loro redditi “.

Sia in Svizzera che in Italia, si discutono possibili aiuti finanziari. Quelli già messi in atto sono stati conseguenza delle decisioni prese autonomamente dalle singole sezioni dei club alpini. In Italia, in alcuni casi si è rinunciato a percepire l’affitto.

La Regione Piemonte ha inoltre dato 2’000 euro a fondo perso ad ogni rifugio sul suo territorio.  “È una cifra che fa piacere, e probabilmente non si poteva fare di più”, dice Antonio Montani, “ma non risolve sicuramente i problemi ed è abbastanza impensabile che lo Stato intervenga in maniera massiccia. Motivo per cui siamo tutti fiduciosi nella possibilità di riaprire”.

Una riapertura a cui il Cai si prepara pensando a una serie di direttive di sicurezza analoghe a quella già introdotte in Svizzera.

Dubbi al confine

Un altro aspetto che si spera i decreti risolveranno è quello dei confini. In alta quota “c’è una permeabilità altissima”, spiega Antonio Montani, e le regole attualmente in vigore per l’attraversamento delle frontiere potrebbero portare a parecchi problemi. Il responsabile del Cai spera che determinati oneri non ricadano sui rifugisti, come la decisione di tenere qualcuno per 14 giorni in quarantena o “respingerlo sull’uscio, che è sicuramente contro l’etica della montagna”.

In che modo queste questioni saranno risolte lo si scoprirà solo nel corso della stagione.

Mesi di “maltempo”

Sia in Svizzera che in Italia si percepisce comunque un certo ottimismo. “Spero che la montagna e la bellezza dell’escursionismo vengano vissuti lo stesso e che, malgrado la situazione, la gente vada in montagna come fa di solito”, dice Ulrich Delang. “In fin dei conti il rifugio è una base, ma quello che conta è l’attività che comincia quando lo si lascia alle spalle.”

“Molti rifugisti con cui sono regolarmente in contatto hanno preso questi mesi di chiusura obbligata come due mesi di maltempo”, conclude Antonio Montani. “Tanti di loro senza mettersi d’accordo mi hanno fatto questo paragone. Per ora la prendiamo come una stagione sfortunata, vediamo come riusciremo a recuperarla. Ci vuole pazienza, ma la pazienza è una delle caratteristiche dei montanari.”

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