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“In Svizzera non si dirige, si coordina”

Вальтер Турнхерр
Walter Thurnherr svolge dal 1° gennaio 2016 l'incarico di cancelliere della Confederazione. Keystone

In Svizzera non vi è una mancanza di leadership a livello di governo, si vuole piuttosto evitare che qualcuno diriga gli altri, ritiene il cancelliere della Confederazione Walter Thurnherr. In un’intervista concessa alla Neue Zürcher Zeitung, si sofferma su diverse sfide attuali, tra cui quella della crescente digitalizzazione. 

Signor Thurnherr, quale cancelliere della Confederazione lei segue da vicino il lavoro del governo. Si può dire che il Consiglio federale sbriga prevalentemente gli affari dei singoli dipartimenti e si occupa ben poco di questioni strategiche? 

Il Consiglio federale tratta ogni anno circa 2600 affari nel corso di una quarantina di sedute. Lei può quindi facilmente calcolare di quanto tempo dispone per ogni singolo oggetto. Ciò è fattibile solo perché, prima di essere sottoposti al collegio, gli oggetti vengono preparati con cura, discussi e in parte anche trattati dall’amministrazione e dal responsabile del dipartimento competente. Tra questi affari vi sono pure questioni strategiche importanti, che il Consiglio federale deve poter discutere in modo approfondito. A tale scopo sono in programma quest’anno diverse sedute di clausura. Ad esempio sui temi dell’agricoltura, della sanità e dell’Europa. Queste sedute sono importanti poiché molti temi diventano sempre più complessi, interconnessi e internazionali. 

Investire del tempo è una cosa. Ci vuole però anche la volontà del governo di definire un approccio comune. Sul dossier europeo questa volontà sembra mancare. 

La politica europea è particolare, dato che ci troviamo in mezzo a negoziati con l’UE. Ciò significa che, in quest’ambito, il Consiglio federale deve concordare una strategia negoziale. Questa strategia non può essere divulgata pubblicamente o venir offerta ai giornalisti. 

Vi è però anche una dimensione di politica interna. In quest’ambito non si denota una “leadership” da parte del governo. 

“Leadership” è un concetto impiegato in modo contradditorio nella politica svizzera. Da una parte si critica spesso e volentieri la mancanza di leadership e dall’altra tutti concordano su un punto: va evitato ad ogni costo, che qualcuno si metta a dirigere gli altri. In Svizzera, non si dirige, si coordina. A livello di direzione, da noi si ammette tutt’al più che qualcuno assuma una competenza specifica di coordinazione. E finora non ce la siamo cavata male in questo modo. 

In che modo si può però spianare il terreno per far evolvere il dossier europeo presso il parlamento o la popolazione, se nemmeno il Consiglio federale riesce a raggiungere un consenso? 

Vi è un consenso da parte di molti – anche all’interno del governo – sull’obbiettivo di conservare le relazioni bilaterali con l’UE e di regolarle dal profilo giuridico. La questione è di sapere come raggiungere questo obbiettivo e che prezzo siamo disposti a pagare. In un sistema di democrazia diretta non è facile chiarire una simile questione in un solo colpo. Generalmente, vale la pena essere un po’ più intelligenti della media. Nella nostra politica, però, chi crede di essere molto più intelligente, rischia di esporsi parecchio, dato che ogni tre mesi tutto viene livellato nell’ambito delle votazioni popolari. Ciò può essere considerato un aspetto negativo. Personalmente trovo che, in questo modo, il nostro sistema produca sorprendentemente molta intelligenza collettiva. 

Proprio a proposito del prezzo da pagare è indispensabile una posizione consolidata da parte del governo

I negoziati su un accordo istituzionale con l’UE sono ancora in corso. In base all’esperienza, come detto, è più da furbi salvaguardare il silenzio durante dei negoziati. È chiaro che ne risulta un certo malessere, ma non è solo il caso della politica europea. Il parlamento e la popolazione si rendono sempre più conto di quanto la politica estera e quella interna siano intrecciate. E di quanto ciò riduca il margine di azione. Prendiamo l’esempio del segreto bancario o dello scambio automatico di informazioni. Sono state esperienze difficili e frustranti per il legislatore. 

Oltre alle interconnessioni globali, anche il rapido sviluppo tecnologico pone sempre più sotto pressione la politica. Il nostro sistema politico sta raggiungendo i suoi limiti? 

Vi saranno sicuramente maggiori tensioni. I nostri processi politici, che prevedono vaste consultazioni, richiedono molto tempo. Gli sviluppi tecnologici giungono però sempre più in fretta e inaspettatamente. La pressione è destinata quindi ad aumentare. 

In che modo va affrontato questo problema? Bisogna limitare le procedure di consultazione? 

No. Dobbiamo continuare a prendere il tempo necessario per riflettere. In tal modo le leggi diventano migliori e non peggiori. La questione è piuttosto di sapere se vi sono alternative a livello di regolamentazione. Ci vuole sempre una nuova legge oppure basta un’ordinanza? Occorre regolamentare in modo più mirato e neutrale dal profilo tecnologico, lasciando aperta la via da seguire? Per fare ciò è necessaria una certa fiducia nei confronti dell’amministrazione e del Consiglio federale. Si tratta inoltre di riconoscere e di decidere in modo precoce se qualcosa va veramente regolamentato. A tale scopo la politica e l’amministrazione dovrebbero collaborare in modo più stretto con gli ambienti scientifici ed economici. 

Una sorta di think-tank per capire precocemente se è indispensabile una regolamentazione? 

Un tempo i politecnici federali costituivano una sorta di centro di competenze della Confederazione. Poi queste istituzioni sono state separate e distaccate. La cooperazione potrebbe venir di nuovo rafforzata. I nostri istituti di ricerca – tra cui anche le università e le scuole universitarie professionali – percepiscono determinati sviluppi molto prima dell’amministrazione. Lo stesso vale per l’economia. Ai tempi si partiva dall’idea che il sistema di milizia sarebbe stato in grado assicurare uno scambio d’informazioni necessario. Oggi ciò non è più sempre il caso. Forse ci vogliono nuovi canali. 

A livello generale, la Svizzera sta perdendo terreno nel campo della digitalizzazione? 

La digitalizzazione è un’enorme sfida per tutti i paesi. Le infrastrutture necessarie devono essere presenti, sorgono così nuovi modelli di affari e anche questioni di concorrenza. La sicurezza rappresenta inoltre un grande tema, al quale lo Stato deve rispondere. 

Può essere più concreto? 

Prendiamo l’attacco Ransomware dello scorso 12 maggio. In che modo lo Stato deve garantire la proprietà e la sicurezza dei suoi cittadini di fronte a simili attacchi cibernetici? Oppure “internet delle cose”: anche qui molti parlano della protezione dei dati. Personalmente intravedo però anche altre sfide. 

Quali? 

Un esempio: per mettere in circolazione un’automobile, bisogna assolvere numerosi test, tra cui quelli relativi ai criteri di sicurezza. Oggi, e ancora più in futuro, i software dei veicoli vengono però continuamente aggiornati attraverso internet, ciò che comporta modifiche fondamentali delle automobili. Come può lo Stato verificare che tali modifiche siano conformi alle norme di sicurezza e alle altre prescrizioni? Come passare da un’autorizzazione unica per la messa in circolazione a un processo continuo di controllo? Ciò non vale solo per le automobili, ma anche per altre cose che sono collegate a internet. 

La politica sta cercando di trasporre le regolamentazioni del mondo analogico a quello digitale. Forse bisognerebbe semplicemente regolamentare un po’ meno. 

A livello di regolamentazioni vi è una certa ipocrisia da parte della politica. Dei 1500 interventi parlamentari, che vengono depositati ogni anno, solo pochi sono dei messaggi di auguri al Consiglio federale. La maggior parte chiedono di regolamentare qualcosa. Il problema della digitalizzazione è però legato al fatto che una regolamentazione non è praticamente possibile a livello nazionale. Questioni come la neutralità della rete, la protezione dei dati o la lotta contro la cibercriminalità non possono essere regolamentate sul piano nazionale. Anche qui vi è una pressione per giungere a regolamentazioni internazionali. 

La settimana scorsa il Consiglio nazionale si è espresso a favore di un freno alle regolamentazioni. Per ogni nuova legge approvata andrebbe soppressa una vecchia legge. Ciò è fattibile secondo lei? 

Tutto è fattibile. Non va però dimenticata una cosa: il parlamento incarica regolarmente il Consiglio federale di riesaminare i compiti dell’amministrazione. E ogni volta che il governo propone di rinunciare ad un compito, in parlamento si formano delle resistenze. Attendo con curiosità i dibattiti parlamentari sulle proposte concrete del governo per sopprimere delle leggi. 

Ha menzionato prima il valore dell’intelligenza collettiva. Come valuta da questo aspetto il Consiglio federale? 

Sono un sostenitore di un esecutivo con sette consiglieri federali. Si crea un valore aggiunto, quando un problema viene esaminato da sette punti di vista diversi. In altri paesi le decisioni vengono spesso prese molto più in fretta – e si fanno anche più sbagli. 

Anche l’attuale Consiglio federale dimostra un’intelligenza collettiva? 

La sua domanda è maligna. Ritengo che sia il caso. E questa intelligenza aumenta per il fatto – come provato da studi scientifici – che entrambi i sessi sono adeguatamente rappresentati in governo. 

La Confederazione ha tratto i debiti insegnamenti dagli attacchi cibernetici che hanno colpito la Ruag? 

Stiamo ancora lavorando su questo caso. Spero che potremmo trarne utili insegnamenti. Non è però possibile promettere una protezione al 100% delle nostre infrastrutture contro attacchi cibernetici. 

Le competenze dell’amministrazione federale a livello di informatica sono sufficienti, per far fronte a simili attacchi? 

Difficile dirlo. È come per ogni altra impresa: una sempre maggiore competenza non fa del male. In questo campo non si può pensare di risolvere il problema assumendo semplicemente un paio di collaboratori in più. Sicuramente la Confederazione si è però resa conto di dover intervenire. 

La Confederazione collabora con i politecnici federali e altri istituti specializzati per disporre di ulteriori competenze allo scopo di proteggere l’infrastruttura informatica? 

Sì. Vi sono progetti comuni portati avanti dall’Ufficio federale dell’informatica e dai politecnici, ad esempio una collaborazione per migliorare la sicurezza delle connessioni internet. Per quanto riguarda la sicurezza informatica, tuttavia, i lavori non sono mai conclusi. 

Anche grandi progetti informatici della Confederazione, come Insieme, hanno attirato l’attenzione in modo negativo. 

Rispetto alle grandi imprese, il settore informatico della Confederazione non è così pessimo come la sua reputazione. Vi sono però due aspetti che rendono particolarmente difficili i progetti informatici della Confederazione. Il primo è costituito dall’enorme eterogeneità con quasi 3000 applicazioni speciali – dai pagamenti diretti all’agricoltura fino al servizio civile o alle dogane. Questi sistemi sono cresciuti su basi decentralizzate, spesso sono interconnessi e vanno continuamente modificati e migliorati. L’altro aspetto riguarda gli acquisti pubblici della Confederazione. 

Gli acquisti pubblici costituiscono un ostacolo? 

Il centro di competenza per gli acquisti pubblici ha un ottimo obbiettivo: promuovere la concorrenza e la trasparenza. Ciò è importante, dato che la Confederazione acquista beni e servizi per circa 5,6 miliardi di franchi all’anno. Questo sistema è però estremamente dettagliato e costruito in base ad un perfezionismo tipicamente svizzero. Per applicarlo, i responsabili degli uffici federali devono diventare quasi mezzi informatici ed esperti di acquisti. Oggi dobbiamo inoltre tener conto delle offerte meno care, anche se, in base alle nostre esperienze, nutriamo dei dubbi sull’affidabilità dei prezzi proposti da alcuni fornitori. Questo problema dovrebbe ora venir affrontato nel quadro di una revisione. 

Il problema non è legato piuttosto alla mancanza di una centralizzazione degli acquisti informatici? 

Il sistema attuale prevede che, chiunque lancia un progetto o un programma informatico, deve assumere la funzione di committente. In quest’ambito sarebbe indubbiamente possibile una riforma, per sgravare i diversi committenti e centralizzare le competenze degli acquisti pubblici. Ciò si trova ora in esame.

Questa intervista è stata pubblicata dalla Neue Zürcher Zeitung il 13 giugno 2017.

Traduzione di Armando Mombelli

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