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I buoni uffici continuano a svolgere un ruolo significativo nella politica di pace della Svizzera, secondo il Ministero degli affari esteri. Tuttavia, il numero di mandati di "potenza protettrice" è in calo.

Che si tratti di fungere da messaggero tra due stati che non si parlano o di mediare attivamente e negoziare una soluzione, i buoni uffici della Svizzera hanno una lunga tradizione.

Le sue prime attività di potenza protettrice risalgono al 19° secolo, quando curava gli interessi del Regno di Baviera e il Ducato di Baden in Francia, durante la guerra franco-prussiana nel 1870-71.

Il “periodo d’oro” per i cosiddetti mandati di potenza protettrice – tutelare gli interessi di un altro paese in uno stato terzo – è stato durante la Seconda guerra mondiale: nel 1943/44, alla Svizzera sono stati affidati 219 mandati per conto di 35 stati.

“La Svizzera ha utilizzato i buoni uffici per compensare la sua neutralità, che aveva un po’ una cattiva reputazione dopo la Seconda guerra mondiale”, dice a swissinfo.ch Daniel Trachsler, ricercatore al Centro per gli studi sulla sicurezza (CSS) del Politecnico federale di Zurigo (ETHZ).

Anche la guerra fredda ha generato domande di servizi svizzeri. Berna nel 1973 era incaricata di 24 mandati. Da allora, tuttavia, il loro numero è sceso a sei.

Il tempo del disgelo

Questo declino è dovuto a tre ragioni, precisa Trachsler, che è autore di un’analisi, pubblicata nel febbraio 2012, intitolata “Svizzera potenza protettrice: rinascita di una tradizione?”.

“In primo luogo, il calo della domanda. Molti paesi hanno ristabilito le relazioni diplomatiche dopo la fine della guerra fredda”, rammenta il ricercatore.

“In secondo luogo, la rappresentanza di interessi stranieri è uno strumento tradizionale utilizzato allo scopo di allentare le tensioni tra gli stati. Ma al giorno d’oggi i conflitti sono sempre più di natura intrastatale”. Le parti opposte non sono più solo stati, bensì anche altri attori armati e lo strumento della potenza protettrice non è orientato verso questo tipo di conflitto, rileva lo specialista.

“Infine – soprattutto alla fine degli anni ’90 – il governo svizzero era un po’ riluttante ad accettare nuovi mandati. Ciò è però cambiato negli ultimi anni, come dimostrato dalla rappresentanza degli interessi russi in Georgia e viceversa”.

Per queste ragioni, lo studio di Daniel Trachsler afferma che non ci si deve attendere una rinascita in grande stile di “questo strumento tradizionale della politica estera svizzera”, nonostante i risultati positivi conseguiti in tempi recenti.

“Una potenza protettrice entra in gioco quando due stati interrompono le loro relazioni diplomatiche e/o consolari a seguito di un conflitto. La potenza protettrice si assume una parte dei compiti svolti fino a quel momento dalla rappresentanza regolare. Se tutte le parti coinvolte sono d’accordo, la potenza protettrice difende sul posto gli interessi di uno stato (stato inviante). Il servizio reso consente agli stati coinvolti di mantenere relazioni minime”.

Attualmente la Svizzera assume sei mandati di potenza protettrice. Rappresenta gli interessi:

degli Stati Uniti a Cuba

di Cuba negli Stati Uniti

dell’Iran in Egitto

degli Stati Uniti in Iran

della Russia in Georgia

della Georgia in Russia

(Fonte: Dipartimento federale degli affari esteri)

Buone prospettive

Nel 2011, ad esempio, l’ambasciatore svizzero in Iran, dove la Confederazione cura gli interessi degli Stati Uniti dal 1980, ha svolto un ruolo significativo nel rilascio di due cittadini americani detenuti a Teheran.

Lo stesso anno, durante il braccio di ferro tra Russia e Georgia, la mediazione della Svizzera ha contribuito a rimuovere le pietre d’inciampo che impedivano alla Russia di aderire all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO).

Il 2011 ha anche segnato mezzo secolo del più lungo mandato di potenza protettrice della storia: dal 6 gennaio 1961, la Svizzera rappresenta gli interessi statunitensi a Cuba.

“Penso che finché ci saranno conflitti ci sarà bisogno di mediatori e facilitatori. Quindi non vedo una generale diminuzione della domanda nel prossimo futuro”, commenta Trachsler.

“Per quanto riguarda l’entità delle attività svizzere, ciò è influenzato da due fattori supplementari. In primo luogo, dipende se per il supporto le parti in conflitto preferiscono rivolgersi a un piccolo stato come la Svizzera, oppure a un’organizzazione internazionale come le Nazioni Unite, o a una grande potenza, come per esempio gli Stati Uniti, o ancora a una Ong (organizzazione non governativa)”.

“Dipende anche dalla volontà del governo svizzero e se continua a considerare la politica di promozione della pace come pietra angolare della sua politica estera. In questo momento ciò sembra essere il caso con il ministro degli affari esteri Didier Burkhalter”.

Riservatezza e discrezione

Una Ong, che ha collaborato nei buoni uffici della Svizzera, per lo più offrendo sostegno e mediazione alle parti in conflitto, al fine di facilitare i negoziati tra di esse, è Conciliation Resource (CR), un’organizzazione con sede a Londra, attiva nella promozione civile della pace in zone di conflitto.

“In alcune circostanze i buoni uffici svizzeri svolgono un ruolo nel processo di pace in cui siamo impegnati a livello della società civile”, dichiara a swissinfo.ch il direttore dei programmi di CR Jonathan Cohen.

L’Ong sarebbe disposta a collaborare, discutere, condividere analisi e perizie con i mediatori svizzeri in continuazione. Ma costoro “operano in modo discreto e riservato e non ci direbbero necessariamente dove stanno lavorando. Ritengono che questo grado di riservatezza sia di fondamentale importanza. Tengono nascoste le loro carte”.

Philippe Welti, ambasciatore svizzero in Iran dal 2004 al 2008, lo conferma. “Gli svizzeri hanno sempre seguito rigorosamente la politica di non dire nulla sul contenuto dei mandati di potenza protettrice”, dichiara a swissinfo.ch. “Usavo dire che abbiamo la politica di confermare che abbiamo il mandato, niente altro”, aggiunge ridendo.

La raccomandazione principale del rapporto del ricercatore del CSS Daniel Trachsler è che la Svizzera dovrebbe fare uso delle “opportunità vantaggiose” legate ai mandati di potenza protettrice per la sua politica estera, senza però sopravvalutarne l’importanza.

“La Svizzera ha una serie di vantaggi competitivi”, spiega Trachsler. “È un piccolo paese, quindi di solito non è una minaccia per le parti coinvolte. È considerata da molti come una mediatrice imparziale, onesta. Non fa parte di organizzazioni come la NATO o l’Unione europea e non ha un passato coloniale”.

La Svizzera è inoltre nota per la sua disponibilità a parlare con tutte le parti in conflitto, compresi attori armati non statali, spesso evitati da altri paesi.

D’altra parte, “la Svizzera ha una buona logistica, notevoli mezzi finanziari e competenze in campi come la democrazia, il federalismo, diritti delle minoranze, il buon governo e così via”.

Rischi politici

Ma è valsa la pena? “Certo c’è sempre qualche rischio politico in un processo di pace”, riconosce Trachsler, sottolineando che non tutti i paesi e le parti approvano ciò che la Svizzera sta facendo in alcuni conflitti.

“A volte è difficile giustificare un impegno anche all’interno del paese. Ma la Svizzera ha avuto alcuni successi e si è conquistata una buona reputazione a livello internazionale in questo campo”.

E c’è di più: il parlamento svizzero sembra pensare che valga la pena compiere questi sforzi. Nel 2012, ha approvato un credito quadro che ha aumentato i mezzi finanziari per la promozione della pace e dei diritti umani da circa 60 milioni a 77 milioni di franchi all’anno. Secondo Trachsler, la linea di credito per i buoni uffici, la mediazione e la promozione civile della pace costituisce circa il 40 per cento di tale importo.

Un vantaggio non trascurabile, citato nel rapporto di Trachsler, che questo tipo di uffici procura alla politica estera elvetica è l’apertura delle porte di alte sfere all’estero, in particolare alla Casa bianca e al Cremlino, per poi poter presentare richieste per i propri interessi.

Comunque, guadagnarsi l’accesso a coloro che decidono, non significa automaticamente che le richieste saranno esaudite. “Questo è tutto un altro paio di maniche”, puntualizza il ricercatore.

(Traduzione dall’inglese: Sonia Fenazzi)

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