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«I bosniaci vogliono soprattutto vivere una vita normale»

Andrea Rauber Saxer posa davanti alla bandiera svizzera
La lotta contro la disoccupazione giovanile è uno dei principali obiettivi della politica elvetico dello sviluppo, dice l'ambasciatrice Andrea Rauber Saxer a Sarajevo. Edvin Kalic

La guerra in Bosnia è finita oltre 20 anni fa. La situazione nel paese è tranquilla, anche se gli sforzi per superare i traumi della guerra non sono ancora conclusi. L’economia però quasi non cresce, il tasso di disoccupazione è alto e le riforme politiche si fanno attendere. Nonostante i problemi, Andrea Rauber Saxer, ambasciatrice svizzera a Sarajevo, vede anche degli spiragli di luce.

swissinfo.ch: Nonostante gli aiuti internazionali, anche da parte della Svizzera, le riforme politiche ed economiche non sono ancora state attuate. Il trattato di Dayton, che prevede la spartizione del potere in tre parti, è uno dei problemi che impediscono al paese di decollare?

Andrea Rauber Saxer: La costituzione della Bosnia Erzegovina è nata con gli accordi di pace di Dayton del 1995. Si trattava di separare i contendenti. Sono state create due entità: la Repubblica Srpska, dove la maggioranza degli abitanti è serba, e la Federazione di Bosnia ed Erzegovina, abitata in maggioranza da bosniaci (musulmani bosniaci) e croati. Lo Stato si basa sempre ancora su questa suddivisione. Una riforma costituzionale è fallita per poco nel 2006.

Dal mio punto di vista il problema non risiede però necessariamente nel sistema statale. Se ci fosse la volontà politica, funzionerebbe. Anche in Svizzera abbiamo 26 cantoni che non sempre vanno d’accordo. Quando ci sono problemi si discute e si cercano compromessi. Stiamo perciò cercando di utilizzare l’esempio della Svizzera nelle discussioni. Esso dovrebbe fungere da ispirazione, sulla base della quale possono essere sviluppate le proprie soluzioni.

Carta geografica della Bosnia
La Bosnia ed Erzegovina è divisa in due entità: la Repubblica Srpska (in arancione) e la Bosnia ed Erzegovina (in giallo). wikipdedia.com

swissinfo.ch: Un paese in cui i traumi della guerra non sono ancora superati, dove i dispersi sono ancora migliaia e molti criminali di guerra sono ancora a piede libero, può fare progressi?

La guerra in Bosnia inizia ai primi di aprile del 1992 e termina con la firma degli accordi di Dayton il 14 dicembre 1995. La capitale Sarajevo è tenuta sotto assedio per 1425 giorni. Nella città muoiono oltre 10’000 persone. Complessivamente la guerra in Bosnia Erzegovina causa 100’000 morti. Nella zona sotto protezione delle Nazioni Unite di Srebrenica 8000 ragazzi e uomini musulmani sono massacrati dall’esercito della Repubblica Srpska ai comandi di Ratko Mladić, dalla polizia e da paramilitari serbi, nonostante la presenza dei caschi blu dell’Onu.

Gli accordi di Dayton hanno fatto sì che ogni parte difenda i propri interessi e cerchi di trarne un vantaggio politico. Questi accordi hanno certamente portato la pace, ma con essa in Bosnia si è sviluppato un sistema economico e statale fortemente orientato al partito, che cementa le strutture politiche. Se ai tempi della Jugoslavia un partito controllava lo Stato, adesso sono almeno tre partiti che lo fanno.

A.R.S.: Tra la popolazione percepisco una grande volontà di pensare al domani. La gente ne ha abbastanza di dover pensare al passato e vuole semplicemente vivere una vita normale, come tutti gli altri europei. Per questo la politica ha la responsabilità di affrontare i problemi attuali. Nei colloqui politici lo sottolineo sempre e cerco di far sì che si vada in questa direzione.

Un anno fa il paese ha inoltrato una richiesta di adesione all’Unione europea e indicato quindi la via del futuro. Non accadrà domani, ma è pur sempre un primo passo. La Svizzera sostiene questo obiettivo. È nel nostro interesse che il paese sia stabile, perché è nel nostro cortile di casa.

swissinfo.ch: Lei è ambasciatrice in Bosnia da circa un anno. In questo periodo ha visto dei progressi?

A.R.S.: Ci sono sempre dei progressi, per esempio nel sistema sanitario, sostenuto dalla Svizzera. Ci siamo accordati su standard analoghi nell’ambito della formazione del personale sanitario. È stato appena pubblicato un manuale che incoraggia gli ospedali a dare maggiori competenze alle infermiere. È un passo di natura tecnica e non politica, ma di grande importanza per i cittadini.

Inoltre è stata riformata la legge sul lavoro. Due anni fa è stata approvata la cosiddetta agenda delle riforme, che comprende varie misure per far avanzare il paese. Ora si può far appello a questi obiettivi per richiamare il governo alle sue responsabilità.

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swissinfo.ch: La disoccupazione giovanile secondo i dati ufficiali è di circa il 50%. Chi ha una buona formazione cerca di costruirsi un futuro all’estero. Che aiuti offre la Svizzera per dare una mano all’economia del paese?

A.R.S.: La lotta alla disoccupazione giovanile è uno dei grandi obiettivi della politica di cooperazione svizzera. Di fronte alla fuga dei cervelli appena menzionata, il paese non ha molto tempo da perdere. La pressione è grande, se non si fa niente la gente se ne va. Sosteniamo il paese nella creazione di start-up e nella promozione dell’imprenditorialità.

Un altro aspetto è la promozione del sistema di formazione duale, con il quale in Svizzera abbiamo fatto ottime esperienze. Uno dei problemi è che qui il settore privato è relativamente piccolo e quindi ci sono pochi posti di tirocinio.

D’altro canto sento imprenditori che si lamentano di non trovare le persone adatte. Chi cerca lavoro non dispone delle competenze necessarie. Si tratta quindi di far sì che gli imprenditori possano comunicare alle scuole professionali le loro esigenze. È positivo il fatto che un numero crescente di imprenditori sia disposto a offrire stage ai giovani o a farli lavorare un giorno alla settimana, in modo che accumulino esperienze pratiche. Non si impara a cucinare solo leggendo il libro delle ricette.

swissinfo.ch: E qual è la situazione degli investimenti esteri?

A.R.S.: Qui puntiamo sulla diaspora. Siamo convinti che chi conosce la lingua e le usanze locali e dispone ancora di una rete di conoscenze è fra i primi a investire. Lo vediamo nel caso degli investimenti svizzeri. Di solito si tratta di piccole e medie imprese che hanno un qualche rapporto con la Bosnia e hanno capito che qui si può produrre a buon mercato. La Svizzera sostiene questo movimento con prestiti a tassi ridotti e con lo scambio di informazioni.

swissinfo.ch: Per garantire la pace, nel paese sono sempre ancora presenti soldati stranieri, anche svizzeri. Sono ancora necessari, 22 anni dopo la guerra?

A.R.S.: Credo di sì, per rassicurare la popolazione locale. Non perché ci sia il rischio immediato di una ripresa del conflitto, ma perché molte persone sono ancora piuttosto traumatizzate.

L’autunno scorso per esempio nella Repubblica Srpska si è tenuto un referendum per decidere se il 9 gennaio debba essere dichiarato giorno di festa nazionale nella parte serba della Bosnia. A noi può apparire una questione banale, ma qui è un tema scottante. Il 9 gennaio 1992 era stata proclamata l’indipendenza della Repubblica Srpska; è l’evento che ha scatenato la guerra. Festeggiare questa giornata è una grande provocazione. La parte bosniaca ha fatto ricorso con successo alla corte costituzionale. Il referendum è stato una risposta alla decisione della corte.

Come nuova arrivata in questo paese sono rimasta molto stupita della reazione scioccata della gente, anche di persone con un alto grado di scolarizzazione. Avevano paura che il conflitto potesse riaccendersi. Argomentavano dicendo che anche nel 1992 il conflitto era cominciato così, con la stessa retorica nazionalista da tutte le parti. Per offrire sicurezza a queste persone è necessaria questa minima presenza internazionale, composta di 600 soldati. E anche per mettere dei limiti ai politici nazionalisti. Ora sarebbe il momento sbagliato per ritirare il contingente internazionale.

swissinfo.ch: Si legge della crescente influenza di gruppi islamisti in Bosnia. Una polveriera, vista la mancanza di prospettive dei giovani…

A.R.S.: Durante e anche dopo la guerra i paesi arabi hanno sostenuto in modo massiccio i loro correligionari, con aiuti umanitari e finanziando nuove moschee. C’erano anche cosiddette ONG, organizzazioni finanziate dagli Stati, che volevano prima di tutto promuovere la loro religione.

Queste azioni sono state percepite con un certo scetticismo dagli stessi musulmani bosniaci. In Bosnia la grande maggioranza dei fedeli pratica un islam moderato. Naturalmente ci sono anche bosniaci che hanno combattuto per lo Stato islamico. Ma le cifre non sono enormi: secondo le statistiche, si tratta di alcune centinaia di persone. I media hanno gonfiato la questione. Anche in Bosnia chi torna è arrestato e processato. Negli ultimi anni ci sono stati due attentati compiuti da attentatori isolati, analogamente a quanto è accaduto in altri paesi europei. Non posso però confermare che si assista a una crescente radicalizzazione.

swissinfo.ch: L’elaborazione dei postumi della guerra non è ancora conclusa. Che ne è degli sforzi di riconciliazione nel paese?

A.R.S.: Molti soffrono ancora di una sindrome post-traumatica dovuta alla guerra. Di recente un esperto mi ha spiegato che non colpisce solo chi ha vissuto la guerra in prima persona, ma che si trasmette anche alla generazione seguente.

La Svizzera partecipa alla costruzione di cosiddetti centri di salute. Si tratta di spazi sorti in molti comuni dove possono essere curate in modo ambulatoriale persone che hanno problemi psichici.

Chiunque è rimasto qui durante la guerra ha la sua storia e anche chi è andato via a vissuto la guerra a modo suo. Non è una cosa che si supera facilmente. Ho anche sentito dire che la riconciliazione è più difficile per chi è andato via che per chi è rimasto qui. Perché chi è rimasto ha vissuto anche gesti positivi da parte degli altri. Si sentono molte storie di serbi o di croati che hanno aiutato dei musulmani e viceversa.

Andrea Rauber Saxer è ambasciatrice svizzera in Bosnia ed Erzegovina dal settembre 2016. In precedenza è stata vicedirettrice della missione permanente svizzera presso l’Osce a Vienna e consulente per la politica estera di due ministri svizzeri. Per breve tempo ha lavorato anche presso la Corte penale internazionale per l’ex Jugoslavia all’Aia.


(Traduzione dal tedesco: Andrea Tognina)

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