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Rifugiati ripartiti «come pacchetti alla posta»?

Dal centro federale di Chiasso, alla frontiera con l'Italia, i richiedenti l'asilo vengono ripartiti tra i cantoni. 13 Photo

Mentre l’Unione europea dibatte di un sistema di quote, da oltre vent’anni in Svizzera i richiedenti l’asilo vengono ripartiti tra i cantoni in base a un unico criterio: la popolazione. Una prassi amministrativa giudicata soddisfacente dai cantoni, ma che secondo le ONG pregiudica le opportunità d’integrazione dei rifugiati.

«Si tratta di un sistema di ripartizione molto semplice ed efficace: ad ogni cantone è attribuita una percentuale fissa di richiedenti l’asilo, in funzione della popolazione. Sulla base delle stime della Segreteria di Stato della migrazioneCollegamento esterno (SEM) – che per il 2015 prevede ad esempio l’arrivo di 29mila migranti – i cantoni hanno un’idea di quante persone dovranno accogliere e possono così organizzarsi», afferma Roger Schneeberger, segretario generale della Conferenza dei direttori dei dipartimenti cantonali di giustizia e polizia (CCDJP).

«Se la Confederazione dovesse chiedere la disponibilità dei cantoni ad ogni nuovo arrivo, sarebbe estremamente difficile. In una situazione tesa come quella che stiamo vivendo, alcuni cantoni probabilmente rifiuterebbero di accogliere altri richiedenti l’asilo e sarebbero solo quelli più generosi a fare uno sforzo». Un po’ come sta accadendo in seno all’Unione europea.

Prima dell’introduzione di questa chiave di ripartizione, nel 1991, i richiedenti l’asilo avevano una certa libertà di scelta. Ciò creava però disparità tra i cantoni. Alcuni erano più sollecitati di altri per ragioni geografiche (come il Ticino), economiche (Zurigo) o legate alla presenza di una comunità.

Oggi la ripartizione dei richiedenti l’asilo poggia su un principio di solidarietà. E anche se alcuni comuni e cantoni faticano a trovare degli alloggi disponibili, questo sistema non sembra essere oggetto di dibattito. «In questi anni ha dimostrato il suo successo», sostiene Roger Schneeberger. Senza contare che i cantoni non sono lasciati a loro stessi, ma ricevono delle sovvenzioni dalla Confederazione per i costi legati all’alloggio, all’assistenza sociale e ad eventuali misure integrative.

E la volontà dei migranti?

Un sistema che soddisfa tutti, dunque? Non proprio. Le organizzazioni a difesa dei migranti hanno uno sguardo critico.

«La chiave di ripartizione adottata dalla Svizzera si basa unicamente su un calcolo aritmetico, che non prende in considerazione né la volontà dei richiedenti l’asilo, né le disparità di trattamento o di opportunità tra i cantoni», sottolinea Cristina Del Biaggio, geografa, ricercatrice all’università di Friburgo e membro dell’associazione Vivre Ensemble, servizio di documentazione sul diritto d’asilo.

È una prassi, come quella dell’Unione europea d’altronde, che smista le persone quasi fossero pacchetti alla posta», le fa eco Aldo Brina, del Centro sociale protestante.

Il caso di Sarah*, una giovane rifugiata eritrea, è emblematico. Arrivata in Svizzera nel 2008, assieme al figlio piccolo gravemente handicappato, ha chiesto di poter vivere vicino alla sorella nel canton Ginevra. Le autorità l’hanno però “attribuita” al canton Ticino, dalla parte opposta del paese. «Ero distrutta, non me l’aspettavo proprio…E ancora oggi non riesco a capire perché. Da sola è stato tutto molto più difficile: imparare la lingua, gestire il mio bambino che non si muove, trovare un lavoro…».

Se Sarah ha deciso di venire proprio in Svizzera è perché qui c’è la sua famiglia e sperava di potersi rifare una vita e ritrovare una certa sicurezza. «Sono fuggita di notte. Ho lasciato la mia mamma senza nemmeno salutarla. Sono otto anni che non la vedo e mi manca tanto. Se almeno potessi vivere con la mia famiglia…».

La Confederazione fa un’unica eccezione alla sua regola di ripartizione: la presenza di coniugi o di figli minorenni in un determinato cantone. Solo allora i richiedenti l’asilo possono essere trasferiti. La famiglia allargata, la presenza di una comunità di appartenenza o le competenze linguistiche non sono invece tenute in linea di conto. È così che Mebraton*, anche lui eritreo, è stato attribuito a un cantone germanofono anche se parla correntemente italiano. Conoscenze che l’avrebbero forse aiutato ad inserirsi nel mondo del lavoro invece di dipendere dall’assistenza sociale. Lui, la moglie e i tre figli.

«Niente ghetti»

Perché dunque la Confederazione non prende in considerazione altri fattori, che potrebbero per lo meno favorire l’integrazione di persone, come siriani ed eritrei, che hanno buone possibilità di essere accolte?

Interrogata, la Segreteria di Stato della migrazione si è limitata a rispondere – per iscritto – che «i richiedenti l’asilo non vengono selezionati, né attribuiti ai cantoni in base alla nazionalità, per evitare la creazione di ghetti».

Una risposta che non convince Cristina Del Biaggio. «Non si tratta di creare dei ghetti, ma di facilitare l’integrazione. È grazie ai legami comunitari che una persona può trovare più facilmente lavoro, può farsi degli amici, sapere dove ci sono dei corsi di lingua, eccetera». Per principio, i richiedenti l’asilo non possono esprimere alcun desiderio, probabilmente a scopo dissuasivo, le fa eco Denise Efionayi-Mäder, vicedirettrice del Forum svizzero per le migrazioni

Dal canto suo, la segretaria generale della Conferenza delle direttrici e dei direttori cantonali delle opere socialiCollegamento esterno, Margrith Hanselmann, riconosce che «per una singola persona potrebbe essere un vantaggio essere attribuita a un cantone dove si parla la sua stessa lingua. Ma ciò non è compatibile con la chiave di ripartizione», che ha dimostrato di «funzionare bene».

Uno studioCollegamento esterno commissionato dalla stessa SEM, e pubblicato nell’aprile 2014, evidenzia come «la lingua ha un grande impatto, almeno dal punto di vista dell’ottimizzazione delle opportunità di accesso al mondo del lavoro. L’attribuzione dei richiedenti l’asilo francofoni alla Svizzera romanda sarebbe dunque ovvia», scrivono gli autori.

Federalismo in questione

Al loro arrivo in un cantone, i richiedenti l’asilo si trovano inoltre confrontati con realtà e opportunità spesso molto diverse. Se alcuni cantoni promuovono un’integrazione rapida, altri sono più restrittivi.

Nei Grigioni, ad esempio, i richiedenti l’asilo sono incitati a lavorare dopo i primi tre mesi dal loro arrivo. Stando alle statistiche, uno su tre esercita una professione, mentre a Berna o a Basilea campagna, dove le regole sono più severe, è solo uno su cinquanta. Numerosi studi dimostrano che più si allunga il tempo di inattività e più diventa difficile trovare un impiego, soprattutto per gli stranieri che non possono contare su titoli di studio o esperienze riconosciuti dai datori di lavoro.

Le disparità riguardano anche altri aspetti, come l’offerta di corsi di lingua o di atelier professionali, e le condizioni di alloggio per i migranti. Un’inchiesta della Radiotelevisione svizzera (RTS) aveva ad esempio messo in luce la sorte riservata ai minori non accompagnatiCollegamento esterno nel canton Argovia, lasciati a vegetare nel centro, senza sufficiente cibo o vestiti. In Vallese, invece, questi ragazzi hanno diritto a un trattamento speciale, conformemente al loro statuto più fragile.

In virtù del federalismo, la Confederazione non interviene nelle scelte dei cantoni, che hanno la responsabilità della gestione pratica dei richiedenti l’asilo. Esistono certo dei paletti, all’interno dei quali vi è però spesso un ampio margine di manovra.

Un impatto sul lungo termine

La chiave di ripartizione decisa dalla Svizzera ha probabilmente il vantaggio di evitare «discussioni inutili» tra i cantoni, come afferma Margrith Hanselmann, e di semplificare l’accoglienza, costante oggetto di dibattito nel paese.

Può però avere un impatto importante sul destino dei migranti, che va ben oltre la durata di una procedura d’asilo. Raramente infatti queste persone cambiano luogo di domicilio, anche una volta ottenuto uno statuto di protezione. Vuoi perché è troppo costoso o complicato, vuoi perché la legge non glielo permette, o perché si sono ormai integrati.

Rimane un interrogativo: l’obiettivo di una rapida integrazione non dovrebbe avere un ruolo più preponderante? Soprattutto tenendo conto del fatto che oggi la maggior parte dei richiedenti l’asilo – il 57 % nel 2014 – ottiene uno statuto di protezione e resterà dunque in Svizzera probabilmente per anni, se non per tutta la vita. 



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