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Archeologia svizzera sulle pendici dell’Himalaya

La torre principale di Drapham Dzong: scavo archeologico dell’Università di Basilea sotto la guida del professor Werner Meyer. Universität Basel

In pieno sviluppo economico, il Bhutan si trova confrontato a un interrogativo cruciale: come salvaguardare e valorizzare il patrimonio archeologico nell'era della modernizzazione? La risposta è affidata ad alcuni esperti svizzeri.

La distanza geografica non deve trarre in inganno: Svizzera e Bhutan sono più vicini di quanto sembra. L’aiuto allo sviluppo elvetico è in effetti attivo da decenni nel piccolo Stato himalayano e la Confederazione è stata, dopo l’India, il principale paese donatore in termini di aiuti finanziari e cooperazione tecnica.

Con la collaborazione nell’ambito archeologico lanciata nel 2008, il contributo elvetico ha assunto una nuova dimensione: oltre a costruire il futuro, servirà anche a preservare il passato. Lo scopo principale del progetto è infatti la salvaguardia e la valorizzazione del patrimonio culturale del Bhutan. La collaborazione prevede inoltre di rafforzare e istituzionalizzare gli studi archeologici nel paese asiatico.

«In Bhutan, tutto ciò che riguarda la cultura è inglobato nel pensiero religioso buddista. Non c’è alcuna concezione dell’archeologia, dell’antichità dell’umanità o del suolo inteso come archivio della storia», spiega a swissinfo.ch Philippe Della Casa, responsabile del dipartimento di preistoria e protostoria all’Università di Zurigo.

«Il Bhutan è però un paese in pieno sviluppo e ovunque si stanno costruendo strade ed edifici. Ci si è resi conto che il patrimonio culturale nascosto era in pericolo».

Lavoro a mano

Nel quadro della lunga amicizia che lega i due paesi, il Bhutan ha chiesto inizialmente alla Svizzera, e in particolare all’Università di Basilea, di procedere agli scavi della vecchia fortezza di Drapham Dzong, nel distretto centrale di Bumthang.

Lo scavo archeologico si è tenuto dal 2008 al 2010, sotto la guida del professor Werner Meyer e del suo team, e con il sostegno dell’organizzazione svizzera Helvetas e della Fondazione Svizzera Liechtenstein. Secondo il primo ministro bhutanese Lyonchen Jigme Yoser Thinley, citato dal giornale locale Kuensel, i lavori hanno permesso di riportare alla luce la più grande struttura dell’Asia buddista.

Lunga 200 metri e larga 50, la fortezza – risalente al XVI o XVII secolo – è stata costruita su una collina a 3’000 metri di altitudine. Il lavoro sul terreno è stato tutt’altro che facile, ricorda Silvia Scheuerer, storica all’Università di Basilea. «Il sito si trova in una zona piuttosto remota e l’equipaggiamento sul posto era ridotto. Abbiamo fatto tutto a mano, con i pochi mezzi a disposizione».

Negli ultimi tre anni, prosegue Scheuerer, abbiamo conseguito risultati di notevole rilevanza. Quello di Drapham Dzong è stato «il primo scavo scientifico del Bhutan», rileva la ricercatrice.

«Abbiamo approfittato della nostra presenza sul posto per trasmettere le nostre conoscenze agli addetti ai lavori bhutanesi, tra cui ingegneri e autorità».

Ispirarsi al modello svizzero

 

In un secondo tempo, l’apporto elvetico si è invece concentrato sulla gestione e la valorizzazione del patrimonio archeologico.

«È fondamentale mostrare alla popolazione e ai responsabili politici che cos’è l’archeologia. Va poi creato il quadro legislativo per sapere come si deve procedere in presenza di un ritrovamento», spiega Philippe Della Casa, che con l’Università di Zurigo partecipa al Bhutan-Swiss Archaeology Project del governo bhutanese.

 

Recentemente in Bhutan per un seminario, l’archeologo dell’Università di Zurigo ha potuto presentare il modello elvetico e suggerire quali aspetti potrebbero essere ripresi dal regno himalayano.

«In Svizzera, gli interventi archeologici sono solitamente condotti e finanziati dagli uffici cantonali. In altri paesi, come in Francia, è invece chi è all’origine della scoperta, ad esempio un’impresa edilizia, a dover pagare per l’intervento», ci dice Della Casa.

Il Bhutan, suddiviso in 20 distretti, potrebbe riprendere una versione adattata del modello cantonale elvetico, ritiene Della Casa. «Creare un servizio archeologico in ogni distretto è impensabile, dal momento che alcune regioni sono difficilmente accessibili e poco popolate. Si può però immaginare un sistema centralizzato comprendente alcuni uffici archeologici regionali».

La Svizzera partecipa a diversi progetti archeologici all’estero, conclude Philippe Della Casa, citando l’esempio di alcuni scavi Siria, Sudan o Mali. «È però la prima volta che la Svizzera non collabora soltanto in ambito scientifico, ma anche a livello di formazione e di trasferimento delle competenze».

L’inizio della cooperazione svizzera in Bhutan è legato all’amicizia personale tra il terzo re del Bhutan, Jigme Dorji Wangchuck, e Fritz von Schulthess, imprenditore e uomo d’affari di Zurigo.

I primi progetti di sviluppo sono stati lanciati alla fine degli anni ’60 dalla Fondazione pro Bhutan, creata da von Schulthess; in seguito sono subentrate l’associazione Helvetas e la Direzione dello sviluppo e della cooperazione.

L’azione elvetica si è dapprima concentrata nel distretto di Bumthang, una regione all’epoca povera e isolata.

Ai programmi di produzione casearia e di sfruttamento sostenibile delle foreste si sono aggiunti progetti in campo agricolo e dell’assistenza medica.

La cooperazione svizzera ha successivamente ampliato i suoi progetti in altre zone del Bhutan, sostenendo anche programmi scolastici, di formazione professionale e di miglioramento delle infrastrutture.

Tra gli interventi più riusciti vi è quello dei ponti sospesi: oltre 400 ponti pedonali hanno facilitato il collegamento tra i villaggi più remoti.

Oggigiorno, la cooperazione svizzera si concentra principalmente sul miglioramento del sostentamento rurale, sulla gestione comunitaria delle foreste e sulla promozione del “buon governo” (good governance).

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