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«Lo Stato islamico mira a dei simboli»

Dagli americani dovremmo imparare un po' il senso dell'avventura, afferma l'ambasciatore di Svizzera a Washington Martin Dahinden. Federal Department of Foreign Affairs

Ginevra potrebbe essere un bersaglio simbolico per i terroristi, mette in guardia l’ambasciatore di Svizzera a Washington Martin Dahinden. Il diplomatico sottolinea però che la situazione svizzera non può essere paragonata con quella statunitense e di altri paesi impegnati in un’azione militare.

Dopo un anno a Washington come ambasciatore di Svizzera, Martin Dahinden evoca, durante una visita a swissinfo.ch, i passi in avanti tra i due paesi in materia di libero scambio, le vertenze bancarie e la vita negli Stati Uniti, senza dimenticare naturalmente la minaccia terrorista.

swissinfo.ch: È possibile paragonare le minacce che incombono sugli Stati Uniti con le paure legate al terrorismo in Svizzera?

Martin Dahinden: I terroristi prendono di mira tutte le società aperte. Se si esaminano i loro bersagli, ci si rende conto che sono dei simboli. E laddove ci sono dei simboli, vi è la possibilità di fare grandi danni. Ginevra potrebbe essere un tale simbolo. Recentemente, del resto, vi è stato un allarme. Detto ciò, non penso che la Svizzera sia un bersaglio particolare. Per gli Stati Uniti è diverso. Il paese fa parte di una coalizione militare che combatte l’ISIS. Non è possibile paragonare le due situazioni.

swissinfo.ch: Lei ha dichiarato che l’approccio svizzero per combattere l’estremismo violento, come il jihadismo, è un modello per gli altri paesi. Perché?

M.D.: Vi sono tre livelli differenti per lottare contro il terrorismo. Uno naturalmente è l’uso della forza, il ricorso a mezzi militari. È ciò che fanno gli Stati Uniti e la loro coalizione. In seguito, per perturbare le attività terroristiche si può agire sul flusso di informazioni, di combattenti, di armi e di soldi.

Infine, vi è un terzo elemento, ovvero la resistenza. Creare una capacità di resistenza in seno alla società affinché i cittadini non siano tentati dal lanciarsi in attività terroristiche. Noi ci siamo soprattutto concentrati sulla resistenza. Ciò significa che lavoriamo con le comunità per proporre alle persone altre opzioni rispetto a quella di imbracciare armi e commettere atti terroristici. Non dico che sia un’alternativa alle altre due opzioni. Ritengo però che sia un ambito nel quale la Svizzera ha un ruolo da giocare.

swissinfo.ch: Come cooperano Svizzera e Stati Uniti? Per combattere delle cellule terroristiche, lo stesso metodo può funzionare dappertutto, dalla California a Winterthur?

M.D.: Quando delle attività terroristiche si sviluppano, si tratta soprattutto di rinforzare le leggi. Vi sono dei trattati tra Stati Uniti e Svizzera che autorizzano forze di polizia e inquirenti a scambiare informazioni. È qualcosa che esiste e che funziona bene.

swissinfo.ch: In Svizzera vi sono tracce di quella che il presidente americano ha definito «una nuova fase» del terrorismo di matrice islamica?

M.D.: Non siamo risparmiati. Non è qualcosa che si può ignorare. Tuttavia, penso che la nostra forza sia soprattutto quella di creare resistenza, cercando di evitare che delle persone seguano in primo luogo la via del terrorismo.

swissinfo.ch: In che modo il Partenariato transatlantico di commercio e investimento (TTIP) si ripercuoterà sulle aziende svizzere? La Svizzera può o deve parteciparvi?

M.D.: Il TTIP è molto importante per la Svizzera. È un negoziato tra Stati Uniti e Unione Europea, che sono i nostri più grandi partner. Sono anche le regioni in cui investiamo di più. Qualunque cosa accada tra Washington e Bruxelles, ci concerne. Per ora, però, non conosciamo i risultati di queste trattative.

Vi è un elemento molto importante. Il TTIP non rappresenta un grosso problema per le aziende svizzere. Producono già in molti posti, tra cui negli Stati Uniti e nell’Unione Europea. Tuttavia, potrebbe essere un problema per l’impiego in Svizzera. È un aspetto che mi preoccupa. Per questa ragione seguiamo con attenzione questi negoziati.

swissinfo.ch: A quale genere di problemi si riferisce?

M.D.: Sottolineo che bisogna parlare al condizionale, poiché il risultato dei negoziati non è ancora definitivo. Se ad esempio un prodotto farmaceutico autorizzato sul mercato dell’UE può anche essere esportato senza autorizzazione negli Stati Uniti, allora sarà evidentemente più ragionevole produrlo in questa zona che in Svizzera. Questo perché in Svizzera bisognerebbe seguire due volte la trafila per l’autorizzazione. È questo il tipo di problemi che potrebbe porsi. Però ripeto: si tratta per ora solo di speculazioni, poiché non si conosce il contenuto dell’accordo.

swissinfo.ch: Quando si potrà scrivere la parola fine a due vertenze collegate tra di loro come il segreto bancario e l’evasione fiscale?

M.D.: L’accordo siglato tra i due governi nel 2013 permetterà di regolare la situazione e porre fine al contenzioso. Sono fiducioso. Questo dossier ha fatto planare ombre sulle relazioni tra Stati Uniti e Svizzera. Tuttavia tengo a sottolineare che non ha mai definito interamente le relazioni tra i nostri due paesi.

swissinfo.ch: Prevede che un maggior numero di banche possa finire nel mirino della giustizia?

M.D.: No, non penso. Ritengo che i vecchi problemi possano essere archiviati. Del resto, tutto ciò che è successo non ha posto fine alle attività bancarie svizzere negli Stati Uniti. Anzi, molte banche elvetiche presenti sul territorio americano hanno attività più vaste e attivi più importanti rispetto al passato. In Svizzera, si ha spesso la percezione che queste misure siano state prese contro la Svizzera. Non è vero.

swissinfo.ch: Come hanno influito sul suo lavoro il disgelo tra Cuba e Stati Uniti e l’accordo nucleare iraniano? Il ruolo diplomatico della Svizzera negli Stati Uniti è diventato meno importante?

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M.D.: Quando il nostro mandato relativo a Cuba ha preso fine e Washington e L’Avana hanno ripreso le loro relazioni diplomatiche il 20 luglio 2015, il mio lavoro quotidiano non è praticamente cambiato.

Il mandato che concerne l’Iran è diverso. È attuato interamente da cittadini svizzeri. La sezione che si occupa di gestire gli interessi americani a Teheran funziona solo con degli svizzeri e ogni giorno accade qualcosa. Questo mandato riguarda essenzialmente le relazioni tra Stati Uniti e Iran. Non ha nulla a che vedere con l’accordo sul nucleare iraniano.

swissinfo.ch: Le piace vivere a Washington?

M.D.: Washington è una città appassionante da diversi punti di vista. La storia è sempre molto vicina, ovunque ci si trovi. E mi piacciono molto gli americani e il loro modo di fare. Sono diretti. A volte non è sempre piacevole, soprattutto in caso di conflitto. Comunque si sa sempre dove ci si trova e, di norma, non bisogna decodificare quello che dicono. È un aspetto che apprezzo.

swissinfo.ch: Se avesse una bacchetta magica, che qualità degli americani trapianterebbe sugli svizzeri e viceversa?

M.D.: Penso che dagli americani dovremmo imparare il senso dell’avventura, la capacità di prendere dei rischi. Il fatto di intraprendere qualcosa pur sapendo che vi sono possibilità di fallire, poi saper risollevarsi e ricominciare, non è molto svizzero.

Inversamente, ho l’impressione che in tutto ciò che fanno gli svizzeri prendano in considerazione la sostenibilità. Vi sono grandi differenze di attitudine e sono sicuro che, lavorando assieme, queste differenze siano benefiche per entrambi.

 Martin Dahinden

Prima di essere nominato ambasciatore di Svizzera negli Stati Uniti nel novembre 2014, Martin Dahinden ha diretto la Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC) tra il 2008 e il 2014. Tra il 2004 e il 2008 era stato responsabile della direzione delle risorse del Dipartimento federale degli affari esteri (DFAE). Ha anche lavorato per la diplomazia svizzera a Ginevra, New York, in Nigeria e a Parigi, dove si è occupato soprattutto di problemi umanitari, questioni commerciali e sicurezza.

Nato a Zurigo nel 1955, Dahinden ha conseguito un dottorato in economia all’Università di Zurigo. Ha integrato il corpo diplomatico nel 1987. È sposato e padre di due figli.

Traduzione di Daniele Mariani

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