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Aberrazioni, mancanza di coordinamento e incoerenza della politica climatica svizzera

Jürg Staudenmann

La crisi climatica minaccia il pianeta. Necessita di una politica che vada oltre le frontiere e che metta da parte gli interessi particolari a corto termine. Ma a Berna non ci sono segnali di una politica climatica (estera) coerente, sostiene Jürg Staudenmann, esperto di clima e ambiente presso Alliance Sud.

Nessuno può contestare il fatto che la politica climatica deve essere transfrontaliera. Ma a quale dipartimento deve essere affidata? Al Dipartimento dell’ambiente (DATEC) responsabile della legge (riveduta) sul CO2? Al Dipartimento degli affari esteri (DFAE) poiché l’accordo di Parigi sul clima definisce obiettivi e responsabilità? Al Dipartimento dell’economia (DEFR) siccome la tematica del clima concerne essenzialmente le aziende e la ricerca? Anche il Dipartimento federale delle finanze (DFF) potrebbe essere preso in considerazione visto che la piazza finanziaria svizzera dispone di forti leve per far evolvere le cose in materia di politica climatica.

È tuttavia evidente che l’intensificarsi della crisi climatica può essere contrastato soltanto con una strategia interdipartimentale, che sia al di fuori del pensiero e dei modelli politici attuali. Tuttavia, per il momento, in Svizzera non c’è alcun segnale che va in questa direzione.

“La politica climatica svizzera è arbitraria e incoerente”.

Un problema centrale della politica climatica svizzera è il suo modo arbitrario (deliberato) di considerare le frontiere nazionali. Sebbene sia chiaro a tutti che i gas a effetto serra non conoscono confini, gli ambienti politici si concentrano soltanto sulle emissioni nazionali nel conteggio dei gas a effetto serra (vedi riquadro in fondo all’articolo), ma intendono “compensare” le emissioni di CO2 all’estero nel quadro della nuova legge sul CO2. E il dibattito si sviluppa con fervore attorno alle possibilità tecniche di catturare il CO2 e di “eliminarlo” all’estero.

La politica climatica svizzera deve essere il meno onerosa possibile e – questo è il consenso della realpolitik che il movimento di sciopero per il clima critica aspramente a giusto titolo – non deve né rimettere in discussione il nostro stile di vita dannoso per il clima né assumersi la responsabilità dell’impronta climatica considerevole della Svizzera oltre le sue frontiere.

La maggior parte dei fondi in favore della politica climatica internazionale sono attualmente mobilitati a livello del Dipartimento degli affari esteri, e più precisamente provengono dal budget della Direzione dello sviluppo e della cooperazione (DSC). Quest’approccio è sempre più in contrasto con la missione primaria della DSC, ovvero la lotta sul campo contro la povertà e le disuguaglianze. La protezione del clima mondiale è senza dubbio cruciale e urgente, ma non può essere il compito della sola DSC ed essere finanziata essenzialmente dal budget per lo sviluppo.

I due esempi seguenti illustrano a quale punto la Svizzera conduce la sua politica climatica al di fuori delle sue frontiere in modo incontrollato e non coordinato.

Ricerca industriale con i fondi della DSC. La DSC contribuisce a un progetto di ricerca del settore privato e del Politecnico federale di Losanna su un tipo di cemento a basse emissioni (Low Carbon CementCollegamento esterno), prodotto e testato in India, a Cuba, in Thailandia, in Cina e in Brasile. Ci si potrebbe chiedere se andrà direttamente a beneficio delle popolazioni locali più povere.

Progetti di sviluppo presso l’Ufficio federale dell’ambiente (UFAM). In luglio, l’UFAM ha annunciato orgogliosamenteCollegamento esterno che 200’00 forni sarebbero stati distribuiti in Perù “per ridurre il consumo di legna da ardere”. Il progetto apporta un progresso per coloro che non dovranno più compromettere la propria salute in cucine sature di fumo. Sarà difficile verificare in che misura questa iniziativa permetterà di proteggere le foreste e di ridurre le emissioni. Ma la Svizzera potrà detrarre un certo numero di tonnellate di emissioni di CO2 dal suo bilancio interno. È sorprendente anche il fatto che la DSC non sia stata implicata nel progetto.

La politica climatica svizzera è arbitraria e incoerente, in particolare per quanto riguarda i suoi obiettivi e il suo impatto al di là delle frontiere nazionali. Dall’approccio al finanziamento e alla scelta degli strumenti, diversi organi federali promuovono i loro programmi in maniera ben poco coordinata e con una parziale commistione delle responsabilità. Gli attori privati e politici, così come il legislatore, agiscono in maniera contradditoria e incoerente nell’elaborazione della nuova legge sul CO2.

Conclusione: una politica climatica (estera) globale, transfrontaliera e interdipartimentale è urgente! La Svizzera deve indicare i motivi e gli strumenti sulla base dei quali intende ridurre le emissioni mondiali e promuovere la resilienza, direttamente o tramite intermediari (Fondo verde per il climaCollegamento esterno, ad esempio) e come i principi di precauzione e di ‘chi inquina paga’ possano essere rispettati. Ciò necessita una ripartizione chiara dei ruoli basata sulle competenze e le capacità della Confederazione e del settore privato, con la partecipazione degli ambienti scientifici e della società civile.

La capacità di stoccaggio di gas a effetto serra supplementari nell’atmosfera è limitata. Conformemente agli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima, un bilancio completo delle emissioni di gas a effetto serra di uno Stato potrebbe fondarsi sugli standard industriali transnazionali riuniti nel protocollo sui gas a effetto serra (Greenhouse Gas (GHG) Protocol). Tale metodologia volontaria si basa sui conteggi nazionali e colma le lacune esistenti del “reporting” internazionale sul clima. Essa distingue tre “perimetri” di emissioni:

• Le emissioni dei perimetri 1 & 2 (Scope 1 & 2) comprendono i gas a effetto serra emessi da un’azienda in modo diretto e indiretto (ad esempio, tramite l’energia acquistata).

• Le emissioni del perimetro 3 (Scope 3) considerano anche le emissioni generate dai fornitori e dalla distribuzione, l’utilizzo e l’eliminazione dei prodotti dell’azienda.

Applicato agli Stati, ciò significa che oltre alle emissioni nazionali, nel bilancio dovrebbero entrare anche le emissioni che risultano, all’estero, dalla produzione e dal trasporto di beni di consumo e di servizi importati (si tratta delle emissioni grigie).

Nel quadro del perimetro 3, oltre a queste emissioni “legate al consumo”, bisognerebbe includere nel bilancio i gas a effetto serra emessi dalle multinazionali svizzere e dai loro fornitori al di fuori delle frontiere nazionali. Questo comprende in particolare le emissioni che risultano da investimenti realizzati tramite la piazza finanziaria svizzera. Bisogna sapere che sono 22 volte superiori alle emissioni nazionali.

Una politica climatica nazionale è responsabile ed equa a livello mondiale soltanto nella misura in cui si basa sull’impronta di CO2 determinata secondo i perimetri 2 e 3. Ciò svolge un ruolo importante, in particolare per definire chiaramente il significato di termini utilizzati ovunque, ma molto imprecisi, quali “netto pari a zero” o “climaticamente neutro”.

Questo testo è stato pubblicato originariamente il 5 ottobre 2020 sul sito Internet di Alliance Sud in tedescoCollegamento esterno e in franceseCollegamento esterno.

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