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“Salvate il soldato Matteo” dall’estero l’sos per Renzi

Matteo Renzi tvsvizzera

Salvate il soldato Matteo. Inteso come Matteo Renzi. Allarme, monito e invocazione di una parte prestigiosa della stampa internazionale, al di qua e al di là dell'Atlantico. Un "sos" lanciato per primo dal "Financial Times", con una copertina decisamente ansiogena: un autobus con le insegne tricolori pericolosamente in bilico sull'orlo di un precipizio, in instabile equilibrio, sul punto di precipitare nel fatale burrone. A seguire, e in rapida successione, il "Wall Street Journal" ("l'Italia a un passaggio politico vitale, addirittura più importante della Brexit per l'UE"), il "New York Times" ("stabilità politica a rischio"), il "Financial Times" (un Renzi indebolito, " costretto a strappare libertà di manovra finanziaria e fiscale a Bruxelles"), infine "El Pais" ("l'Italia nuova malata d'Europa, in grado di trascinarla in una nuova ricaduta della crisi". Insomma, uno "stock" da evitare.

Come? Con l’esplicito o indiretto invito ad accettare nel prossimo referendum d’autunno la riforma costituzionale (o del Senato) a cui Renzi ha legato le sue sorti politiche. Col rischio, in caso di bocciatura, di aprire una faglia dalle minacciose conseguenze. Consultazione drammatizzata (in primis dal premier) e che cade con indicatori economici sempre negativi: Italia quarta economia d’Europa, ma con un mega-debito pubblico al 135 per cento del PIL, tasso di occupazione adulta più basso dopo la Grecia, economia congelata da anni, e ora anche col problema esplosivo di troppe banche con eccessive “sofferenze” (così chiamano i crediti difficili o impossibili da recuperare).

Una fragilità complessiva, certificata anche dalle ultime stime dell’Istat sul riflusso industriale, e la previsione di una crescita che non si sblocca dal fatidico “zero virgola”. “It’s the economy, stupid”, riecheggia dunque il rimprovero (vincente) che Bill Clinton lanciò al rivale Bush padre, nella corsa per la Casa Bianca. E che ora rischia di abbattersi anche su premier e segretario del PD. Sperava che le riforme politiche potessero attenuare l’impazienza per una ripresa economica tropo lenta. Ma così non è.

Fino al punto che l’ex sindaco di Firenze fa quello che non ha mai fatto finora: ammette di aver commesso un errore personalizzando il prossimo voto referendario, trasformandolo in una sorta di plebiscito sulla sua persona, sostenendo a lungo che la bocciatura della sua riforma avrebbe lo avrebbe costretti alle dimissioni. C’è voluto del tempo prima che Renzi ammettesse lo scivolone, da subito chiaro a gran parte degli osservatori, e naturalmente ai suoi avversari, dentro e fuori il Partito Democratico. Correndo così lo stesso rischio che travolse anche un personaggio come De Gaulle, padre della Quinta Repubblica. Era il 1969, e il generale (sicurissimo di vincere dopo aver domato le febbri del maggio francese) volle un referendum su un paio di quesiti non proprio fondamentali: parziale trasferimento di competenze alle regioni, e, guarda un po’, riforma di un Senato che in Francia non ha mai avuto peso, e che egli voleva trasformare in una sorta di Camera delle professioni. Progetto bocciato dal popolo, anche se di misura, e immediate dimissioni dell’uomo simbolo della resistenza al nazismo.

Renzi non è certo de Gaulle. Forse non conosce bene nemmeno la recente storia francese, e gli altalenanti sondaggi sull’estimo del referendum non lo danno ancora per spacciato. Ma un voto di “istinto e di sentimento” , dettato più dalla delusione che dal contenuto della riforma costituzionale (comunque pasticciata), aprirebbe scenari apparentemente più temuti all’estero che in patria. Dove appunto si invoca di “salvare il soldato Matteo”.

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