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“Queste persone sono un disastro”

Jonas Lüscher
Cresciuto a Berna e residente da anni a Monaco di Baviera, lo scrittore Jonas Lüscher ha ricevuto nel 2017 il Premio svizzero del libro. Thomas Egli / lunax

Lo scrittore Jonas Lüscher si è gravemente ammalato di coronavirus ed è rimasto in coma per sette settimane. In un'intervista, il 43enne parla della sua rabbia nei confronti di coloro che banalizzano la portata della malattia o veicolano teorie del complotto.

Signor Lüscher, lei ha contratto il coronavirus. Come è andata la malattia nel suo caso?

Ho avuto un decorso grave. Il 15 marzo ho partecipato all’organizzazione delle elezioni comunali di Monaco in Baviera, dando una mano alle urne e al conteggio dei voti. Probabilmente è lì che mi sono infettato. Ho avuto dapprima i sintomi ormai noti, tosse, febbre alta. Dopo un test positivo sono stato mandato in ospedale. Qui i medici hanno diagnosticato una polmonite e le mie condizioni sono peggiorate rapidamente. Mi hanno messo in coma e hanno attivato la respirazione artificiale. Sono stato in coma per sette settimane, nove settimane in terapia intensiva e tre settimane in riabilitazione. La funzione polmonare è ancora un po’ limitata e sto lottando con i soliti effetti collaterali di un lungo coma, ma, per fortuna, non ho subito alcun danno cognitivo.

“Dobbiamo chiederci se il nostro rapporto con gli animali non debba essere fondamentalmente riconsiderato”.

Dopo questa esperienza, come giudica il dibattito pubblico?

Trovo – a dir poco – molto strano che, ancora oggi, perfino degli immunologi dicano pubblicamente che il coronavirus non è pericoloso per le persone sane sotto i 45 anni. Ciò mi avrebbe probabilmente irritato anche se non fossi stato contagiato. Ma ora mi irrita ancora di più, perché questa banalizzazione nega la mia malattia. Non appartengo a un gruppo a rischio, ero sano, non avevo malattie antecedenti e non ho ancora 45 anni. La convenienza dell’argomento è evidente: se il virus colpisce solo persone anziane o già malate, allora possono essere semplicemente isolate. Ma questo è prima di tutto sbagliato, come dimostra la mia esperienza, in secondo luogo è disumano e terzo non funziona, come possiamo vedere dall’esempio della Svezia. Per quanto riguarda i teorici della cospirazione… beh, queste persone sono semplicemente un disastro.

Il coronavirus ci sta mostrando un male più grande? O è solo una zoonosi particolarmente grave?

Sarebbe perlomeno un’occasione persa se non sfruttassimo quest’innegabile crisi per porci alcune domande fondamentali. La pandemia agisce come una lente d’ingrandimento, amplifica gli sconvolgimenti sociali esistenti e mostra i problemi in tutta la loro chiarezza. Naturalmente, di fronte a questa pandemia dobbiamo chiederci se possa essere considerato ragionevole un ordine economico così vulnerabile, in quanto dipende da una crescita costante e da un consumo incontrollato. Dobbiamo pure chiederci se il nostro rapporto con gli animali non debba essere fondamentalmente riconsiderato. E alla luce dei giganteschi pacchetti di aiuti, dobbiamo discutere su chi porta il peso maggiore, chi è più vulnerabile e come possiamo distribuire questo peso in modo equo. Ancora una volta, ritorna al centro dell’attenzione la questione di una giusta ridistribuzione.

Ma queste domande vengono effettivamente discusse?

Sorprendentemente no. In realtà è ovvio che in questa situazione straordinariamente drammatica, gli Hoffmann e Oeri, i Brenninkmeijer e i Blocher, dovrebbero rinunciare a un miliardo o due. Ma questo discorso non viene condotto. Tutti sembrano sperare che si possa tornare presto al tempo prima del coronavirus. Certo, è possibile che tra tre o quattro anni guarderemo con calma al 2020 e il periodo del coronavirus sarà ricordato solo come una lontana paura. Così come molte persone oggi ricordano a malapena la crisi finanziaria del 2008. Ma è anche possibile che non torneremo mai più alla vecchia normalità. Che dovremo fare i conti con questo.

La ridistribuzione le sembra una questione urgente nella crisi del coronavirus. Non è una cosa ovvia.

Sì, è così. La crisi della coronavirus ha messo in evidenza la disuguaglianza nella nostra società. Chiunque abbia una bella villa a Zurigo, con giardino e piscina, può facilmente vedere questa crisi come un’opportunità per rallentare. Praticare un po’ di yoga, rispolverare la lingua francese … Una donna sola con due figli adolescenti a carico in un piccolo appartamento in affitto vive la crisi in modo completamente diverso. La sua vita è diventata ancora più precaria a causa del coronavirus. Sì, dobbiamo finalmente distribuire meglio il denaro.

Perché non c’è consapevolezza di questo?

Perché abbiamo interiorizzato il pensiero neoliberale degli ultimi trent’anni. Ci manca la fantasia per immaginare un mondo migliore. Quindi non possiamo ancora immaginare che un’infermiera meriti una paga più alta e condizioni di lavoro migliori di prima. E questo nonostante il fatto che l’importanza di questa infermiera, la sua rilevanza per il sistema, sia diventata molto chiara negli ultimi mesi.

“Ci manca semplicemente la fantasia per immaginare un mondo migliore”.

Lei è socialista. La sua crisi privata, ma anche quella sociale dovuta al coronavirus, ha rafforzato le sue convinzioni.

Sì, questa crisi è la prova che abbiamo bisogno di uno Stato capace di agire. Guardiamo agli Stati Uniti, che stanno fallendo completamente nella crisi: uno Stato sociale debole, un sistema sanitario miserabile, infrastrutture fatiscenti e persone incompetenti in posizioni chiave.

Non solo Trump, ma anche Bolsonaro e Johnson hanno fatto una brutta figura. Il coronavirus pone fine all’era del dilettante populista?

Naturalmente questa crisi li sta smascherando. Trump e la sua famiglia non sanno nulla di amministrazione, non hanno nessun’idea di gestione delle crisi. Bisogna però chiedersi se ciò interessa i loro elettori. Se la realtà può ancora avere qualche effetto sui loro sostenitori fanatici. Nel caso di Trump, solo una delle sue folli interviste dovrebbe essere sufficiente a convincere tutti della sua ineleggibilità. Il fatto che un Jair Bolsonaro se la sia cavata con un leggero decorso di Covid-19 è purtroppo un disastro dal profil esplicativo. Questo sembra ora legittimare il suo “È solo un raffreddore”.

Diverso il caso di Boris Johnson, che ha sofferto molto.

Ho letto che la malattia lo ha cambiato, lo ha reso più riflessivo. Da un lato questo è ovviamente positivo. D’altra parte, non può essere che un politico si renda conto di un problema solo quando si trova ad affrontarlo personalmente. Una persona del genere sembra mancare di empatia. Se un primo ministro deve aver avuto il coronavirus per riconoscere il problema, questo lo squalifica dalla sua carica.

“Naturalmente questa crisi li sta smascherando. Trump e la sua famiglia non sanno nulla di amministrazione, di gestione delle crisi”.

Lei afferma nel suo ultimo libro che la nostra società sottovaluta la narrazione. Si basa troppo su metodi quantitativi e idolatra le statistiche… Il coronavirus smentisce questa tesi: dobbiamo essere in grado di calcolare meglio per capire il numero di casi, le probabilità.

A livello superficiale ciò sembra essere il caso. Sì, nella crisi del coronavirus abbiamo bisogno di precisione scientifica e l’epidemiologia è in effetti in gran parte una materia statistica. La domanda rimane: cosa ne facciamo dei numeri interi? Siamo costretti a sviluppare una narrazione partendo da loro. Perché i numeri da soli non dicono nulla. Quindi abbiamo bisogno di narrazioni basate su questi numeri – narrazioni con qualità esplicativa e validità mondiale. Il virologo berlinese Christian Drosten è un buon esempio di narratore scientifico competente. Dopotutto, i suoi podcast non sono altro che numeri, trasformati da Drosten in narrazioni comprensibili e presentati con cautela e sfumature. La Germania può considerarsi fortunata di avere uno scienziato del genere. Dall’altra parte, c’è la più stupida di tutte le narrazioni sul coronavirus, la negazione maldestra che utilizza teorie cospirative.

“Naturalmente questa crisi li sta smascherando. Trump e la sua famiglia non sanno nulla di amministrazione, di gestione delle crisi”.

All’apice della prima ondata, si era diffusa anche una narrazione apocalittica del coronavirus. Lo scrittore Lukas Bärfuss, ad esempio, aveva preannunciato che in Svizzera l’impatto sarebbe stato peggiore che in Italia.

È sempre facile prendere in giro la “propagazione di panico”. Christian Drosten ha detto questa bella frase: “Non c’è gloria nella prevenzione”. Ed è proprio così: perché alcuni danno l’allarme, vengono prese misure che rendono la situazione meno drammatica di quanto si temesse – e poi queste persone accusate di allarmismo. Ma se non avessero avvertito, se non fossero state prese misure e la situazione sarebbe peggiorata, probabilmente sarebbero state accusate di inazione da parte degli stessi critici. E non ci è voluto molto: immaginate se il Carnevale di Basilea avesse avuto luogo. Allora la pandemia avrebbe potuto svilupparsi davvero così male qui come nel Nord Italia.

Lei è convinto che la letteratura possa darci una migliore comprensione del mondo. Arriverà presto un grande romanzo sul coronavirus aprirci gli occhi?

Quando la stampa proclamerà presto il grande romanzo sul coronavirus, si potrà di certo essere scettici. Dopotutto, nella maggior parte dei casi, queste enormi pretese superano le possibilità di un libro. Un romanzo non può trattare un argomento come il coronavirus in modo esauriente. Sarà piuttosto una rete di narrazioni artistiche – compresi film o canzoni – ad apparire gradualmente e a permetterci di acquisire una comprensione più sfaccettata e profonda del coronvirus. Non è necessario che termini come “corona” o “virus” siano trattati esplicitamente. Si tratta piuttosto di come la pandemia sta plasmando i grandi temi dell’umanità come “amore” o “famiglia”.

“Sicuramente la mia scrittura sarà in qualche modo diversa dopo il coronavirus”.

Il coronavirus è un materiale letterario interessante per lei?

Dal punto di vista sociale, sì. Non scriverò della mia malattia – o almeno nulla destinato ad essere pubblicato. Ma sicuramente la mia scrittura sarà in qualche modo diversa dopo il coronavirus – ma sarà probabilmente il caso per qualsiasi autore serio.

Il coronavirus ha delle conseguenze per il business dell’arte: i concerti, ma anche le grandi letture non sono più possibili, molte aziende rischiano il fallimento. Vi è da temere una devastazione del paesaggio culturale?

In ogni caso è un momento molto critico. Perché molto di ciò che scompare ora è improbabile che ritorni. Soprattutto le piccole imprese sovvenzionate avranno difficoltà. E molti settori della produzione culturale si basano sull’autosufficienza – come il teatro libero, jazz, danza, ma anche la letteratura. Per molti è una vita che va dalle mani alla bocca. La maggior parte degli scrittori non può vivere di vendite di libri. Dipendono dalle letture che ora sono state cancellate. Sono stati colpiti in modo particolarmente duro coloro i cui libri sono stati pubblicati nel bel mezzo del periodo di isolamento. Hanno lavorato su un romanzo per cinque anni e poi il libro semplicemente scompare nel nulla.

Come vede l’arrivo dell’autunno e dell’inverno?

Con grande preoccupazione. Se dovessimo andare di nuovo in isolamento, pagheremo un prezzo molto più alto. Economicamente, ma anche socialmente: persone sole, famiglie in appartamenti troppo piccoli, coppie rotte, convivenze violente, disoccupazione …

E lei personalmente?

Sono stato fortunato nella mia sfortuna e me la sono cavata con, direi, un occhio nero. I medici pensano che per un po’ sarò immune al virus. Vivo una vita che è privilegiata sotto molti aspetti. In un appartamento spazioso. In una buona relazione. Ho un piccolo cuscinetto finanziario. Sono relativamente benestante.

Questo articolo è apparso sul SonntagsZeitung dell’8.8.2020 ed è stato riprodotto qui con gentile concessione.

Traduzione di Armando Mombelli

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