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Storia di un incubo durato 15 mesi

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di Massimo Donelli

La storia che sto per raccontarvi è vera. Dalla prima all’ultima riga. Ve lo garantisco. E lo garantisco perché il protagonista sono io. Sì, io. Ho tutti i documenti che la comprovano. E vi faccio questa premessa perché si tratta di una storia assurda, un incubo kafkianoCollegamento esterno difficile da credere. E’ capitato a me, domani potrebbe capitare a voi. Sappiate solo, prima di cominciare a leggere, che per lo Stato italiano un figlio cessa di essere a carico dei genitori se in un anno percepisce un reddito da lavoro superiore a 2.840,51 euro lordCollegamento esternoi. Avete capito bene: 2.840,51 euro lordi! Basta sfondare anche di un solo euro quel tetto per essere considerati economicamente autosufficienti (ridete pure). Mia figlia, co-protagonista della storia, non ha mai guadagnato nemmeno un centesimo, giacchè è studentessa. Eppure… Eppure vedrete in che guaio siamo finiti… Scoprirete che fisco e magistratura non parlano fra loro… Toccherete con mano questa amara verità: sei accusato? Spetta a te trovare le prove che ti scagionano…

Ora cominciamo, dai.

E armatevi di pazienza, perché ho cercato di sintetizzare e di esemplificare al massimo, ma la faccenda è davvero complessa. Una specie di infernale gioco dell’ocaCollegamento esterno

1. Nel 2010 l’identità fiscale di mia figlia è stata rubataCollegamento esterno. Da chi? Non lo so: da un anonimo che l’ha usata per incassare il compenso di una prestazione professionale e nascondersi al fisco, in modo da non pagare un centesimo di tasse.

2. Come lo abbiamo scoperto? Grazie all’Agenzia delle EntrateCollegamento esterno, che nel novembre 2013 mi ha richiesto il pagamento di una sanzione – oltre al recupero di imposte e agli immancabili interessi – per aver esposto dati errati (ma in realtà corretti!) nella dichiarazione dei redditiCollegamento esterno 2010. Totale da versare per le mie (presunte) malefatte: 1.294 euro.

3. Dove starebbe stato l’errore/colpa? Nell’aver dichiarato mia figlia a carico (lo era) mentre all’Agenzia risultava che lei avesse ricevuto un reddito da lavoro (in realtà mai richiesto né mai ottenuto) di 3.000 euro lordi da una società milanese successivamente incorporata da un’altra società.

4. Ricevuto l’avviso dell’Agenzia delle Entrate, ho subito avvertito il nostro commercialista. Che si è mosso immediatamente. Ha trovato le coordinate delle due società. Ha contattato un’impiegata della incorporante. E ha scoperto, ma solo dopo molte resistenze e insistenze, che il pagamento, riportato nella dichiarazione dei redditi modello 770/2011, era stato bonificato su un conto corrente della Banca Popolare di MilanoCollegamento esterno (BPM) intestato a mia figlia. A mia figlia? Come intestato a mia figlia?

5. Né mia figlia né nessuno della nostra famiglia ha mai avuto un conto in BPM!

E, infatti, ho chiesto e subito ottenuto dalla banca una certificazione in tal senso. Certificazione immediatamente girata all’impiegata della società con la richiesta di una dichiarazione che attestasse l’errore. Povero illuso…

6. L’impiegata ha messo in contatto il commercialista della società con il nostro commercialista. E, per tutta risposta, ci è stata recapitata una nota di collaborazione occasionaleCollegamento esterno (che mia figlia, ovviamente, non ha mai presentato) peraltro con indirizzo di residenza (attribuito a mia figlia) falso, firma (attribuita a mia figlia) falsa e IBAN (International Bank Account NumberCollegamento esterno) non corrispondente né a mia figlia né ad alcun altro componente della nostra famiglia. Una truffa bell’e buona.

7. Allora, lettera scagionante di BPM in una mano e nota di collaborazione truffaldina nell’altra, il mio commercialista è andato all’Agenzia delle Entrate. Per sentirsi dire: “Non basta”. Come non basta? “No, non basta perché dovete dimostrarci che non è stata la figlia a incassare quei soldi”. E in che modo possiamo mai scoprirlo? “Diteci chi li ha incassati“. Replica: chiedetelo voi alla banca, c’è l’IBAN… Risposta: “Non possiamo violare la privacy“. Replica: e noi forse possiamo violarla? “Sta a voi dimostrare che la figlia non ha incassato”. Capito?

8. Incredulo e avvilito, venerdì 11 aprile 2014 sono andato con mia figlia a bussare alla porta della Guardia di FinanzaCollegamento esterno (GDF) di Milano per sporgere denuncia. Due ore di domande e risposte alla fine delle quali è stato steso un verbale. In cui, ovviamente, è ricostruita l’intera storia. Tutto a posto? Macchè…

9. Il 29 aprile 2014, forte del verbale della GDF e della lettera di BPM, nonché della nota di collaborazione falsa e della dichiarazione 770/2011, il commercialista ha presentato ricorso all’Agenzia delle Entrate, fiducioso che il malloppo di carte fosse sufficiente per convincere il fisco della nostra totale estraneità alla sporca vicenda. Neanche per idea. Dopo quattro mesi di silenzio, infatti…

10. … sabato 6 settembre 2014, al ritorno dalle vacanze, trovo una lettera dell’Agenzia delle Entrate: ricorso respinto. Non ci posso credere! Chiamo il commercialista. E lui si mette subito in contatto con l’Agenzia. Dopodichè, l’1 ottobre, via email, mi scrive: “(…) dovrebbe cortesemente accertarsi che la Guardia di Finanza abbia effettuato delle verifiche sulla titolarità del conto corrente; (…) un elemento forte per la chiusura della cartella sarebbe la conferma da parte della Polizia tributaria dell’assoluta estraneità del conto su cui è stato effettuato il bonifico con il nominativo di sua figlia”.

11. Allora telefono alla GDF e spiego la faccenda: potete aiutarmi? Sono disperato… Rispondono che mi faranno sapere. Correttissimi, richiamano il 16 ottobre: “La nostra denuncia dell’11 aprile è stata inviata alla Procura della Repubblica di MilanoCollegamento esterno“, spiegano. Ma hanno le mani legate: senza un mandato del magistrato inquirente non possono muovere un passo, cioè non possono indagare su quel maledetto IBAN.

12. A questo punto mi metto in moto e scopro chi è il sostituto procuratore titolare dell’indagine. Gli scrivo una email in cui racconto tutto. Gli chiedo scusa per il disturbo. E lo imploro: solo lui può portarci fuori da questo incubo. E’ sufficiente che mandi la GDF, la Polizia di StatoCollegamento esterno o i CarabinieriCollegamento esterno in banca per farsi dire a chi appartiene quel maledetto IBAN. Può gentilmente provvedere? Allego il numero di telefono del commercialista: è a sua disposizione, dico, per ogni chiarimento. Siamo a ottobre 2014, nel frattempo.

13. Gentilmente, il magistrato chiama il commercialista e gli spiega che un cittadino non può dialogare direttamente con un inquirente, ma deve farsi rappresentare da un avvocato. Conferma che l’indagine è aperta e dice che quando sarà conclusa verremo informati. Già, ma quando sarà conclusa? Possono passare mesi…

14. Ho capito: devo ingaggiare un avvocato penalista. Scelgo il più bravo che conosco: è anche un’amica e si prende a cuore la faccenda. Ottengo, grazie a lei, il numero di ruolo dell’indagine penale. Scopro che non sono l’unico truffato. E mi sento ripetere che, comunque, dobbiamo aspettare la fine dell’inchiesta (intanto, siamo arrivati a novembre: un anno dall’avviso…). Ok, ma l’Agenzia delle Entrate aspetterà buona-buona o no?

15. Con il numero di ruolo alla mano, chiamo il commercialista. Che, a sua volta, si mette in contatto con l’Agenzia. E’ finita? No, ma almeno otteniamo la sospensione della richiesta di pagamento in attesa di saperne, noi e loro, di più. Piccola tregua. Piccola piccola, però…

16. Siamo alla settimana scorsa, febbraio 2015. Sono passati 15 mesi dall’inizio dell’incubo. Che ricompare. Mi chiama il commercialista e dice: “Guardi, all’Agenzia delle Entrate hanno capito che lei è una persona perbene, ma hanno bisogno di un pezzo di carta per chiudere la faccenda. Altrimenti dobbiamo attivare la procedura della mediazione: i loro avvocati e i nostri avvocati attorno allo stesso tavolo per capire come stanno le cose. E non sappiamo in che modo ne usciremo… Lei non riesce a darmi qualcosa da girare all’Agenzia?”.

17. Chiamo l’amica avvocato. So che è un talento. E che a Palazzo di Giustizia tutti la rispettano perché non va mai sopra le righe. E, soprattutto, conosce il diritto come pochi. Mi puoi aiutare? Sono disperato… “Non ti prometto niente. Ma mi muovo subito”. Incrocio le dita.

18. Passano 48 ore. E ricevo la bella notizia: sono stato iscritto come persona offesa nel procedimento a carico del legale rappresentante della società. Ma nessuno può metterlo nero su bianco… Oddio! E allora? L’avvocato mi detta il testo di un’autocertificazioneCollegamento esterno. Lo metto in bella copia.: “Io sottoscritto… dichiaro che in data odierna sono stato iscritto come persona offesa nel procedimento numero… In fede…”. E lo porto al commercialista.

19. Il commercialista scrive un’email accorata all’Agenzia delle Entrate. Ricorda tutto l’impegno fin qui profuso (lettera BPM, denuncia alla GDF, interessamento in Procura) dal suo assistito, cioè da me, nell’indagare sulla vicenda. E chiede, anche in considerazione del “pezzo di carta” allegato, che venga riconosciuta la mia assoluta buona fede. Lo ascolteranno?

20. Mercoledì 25 febbraio l’incubo finisce: l’Agenzia delle Entrate ci informa che l’atto è annullato. Alleluja! Ci sono voluti 15 mesi per aver ragione. Senza l’aiuto del commercialista e dell’avvocato non ce l’avrei mai fatta.

La storia si ferma qui.

Sorvolando sull’aspetto economico, lascio a voi calcolare il costo sociale dell’operazione.

Ossia il tempo che abbiamo dovuto spendere la Banca Popolare di Milano, la Guardia di Finanza, lo studio del commercialista, lo studio dell’avvocato, la Procura della Repubblica, l’Agenzia delle entrate, mia figlia e io per arrivare al lieto fine in una vicenda da… 1.294 euro.

Senza contare i mal di pancia e gli inviti a gettare la spugna che non ho mai voluto ascoltare: “Dai, per mille euro… Ti togli il pensiero e buonanotte”. No, non ci penso nemmeno. L’idea non m’ha mai sfiorato un solo istante.

Sono stato (da lavoratore dipendente) e sono (da pensionato) un impeccabile contribuente fiscale. Non potevo ammettere una colpa mai commessa solo per stare tranquillo.

Perché vi ho raccontato questa storia? Perché, dovesse capitare a qualcuno che conoscete, potrete spiegargli come se ne viene fuori puliti. Sperabilmente, con qualche mal di pancia in meno rispetto ai miei.

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