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L’economia italiana è in retromarcia da decenni

Fiat 600 su un circuito
Italia, paese all'avanguardia. Nella foto: Fiat 600 sulla pista per il collaudo del Lingotto di Torino, 1955. Keystone

Da quasi due decenni l'economia italiana è in stagnazione. Ma il responsabile non è l'euro, il problema è interno: l'industria automobilistica produce ad esempio la metà rispetto al 1989. Lo sostiene un articolo del settimanale elvetico NZZ am SonntagCollegamento esterno, di cui vi proponiamo qui una traduzione.


Paolo Savona non è certo qualcuno a corto di slogan: “L’euro è una gabbia tedesca” e la Germania dopo la sconfitta del regime nazista non ha abbandonato il suo ruolo imperialista, scrive l’81enne nel suo ultimo libro. Berlino ha semplicemente rinunciato a “imporsi militarmente”, sostiene l’economista.

Savona fa parte del nuovo governo di Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Non è però al ministero delle finanze e dell’economia, come inizialmente pianificato, ma al meno rilevante dicastero degli affari europei.

Il malcontento degli italiani è comprensibile: il prodotto interno lordo è più basso di 15 anni fa, la disoccupazione è all’11% e la crisi dei migranti rimane irrisolta. Ci sono molti problemi a cui trovare un colpevole e l’Euro-zona sotto il “dominio” tedesco “ha dimezzato il potere d’acquisto degli italiani”, denuncia Savona.

grafico ecoluzione pil in italia
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Il riflesso psicologico di ascrivere tutti i problemi a un potere straniero, tuttavia, ha il solo effetto di nascondere cause più profonde. Dopo l’introduzione dell’euro in Italia, la performance economica del paese è cresciuta di un buon 10% (vedi grafico) fino alla brusca frenata dovuta alla crisi finanziaria del 2008. L’Italia, pesantemente indebitata, non si è ancora ripresa.  

Dal 5° al 19° rango

Tuttavia, il declino è cominciato anni prima. La produzione automobilistica, fiore all’occhiello dell’industria del paese, ha raggiunto il suo picco nel 1989 con 2,2 milioni di veicoli. Ancora nel 1990, in questo settore l’Italia si situava al quinto rango mondiale dietro a Giappone, Stati Uniti, Germania e Francia. Oggi è al 19° posto, secondo i dati dell’Organizzazione internazionale dei costruttori di veicoli a motore (OicaCollegamento esterno).

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Questo è difficilmente imputabile all’euro. Ancor più se si considera che Germania, Francia e Spagna sono riuscite a restare nella Top 10. Al contrario della Germania, però, il nostro vicino meridionale ha chiuso per decenni il suo mercato alla concorrenza giapponese con delle quote d’importazione e, a differenza della Francia, a dominare l’intero settore era una sola azienda. 

All’inizio degli anni ’90, il gruppo Fiat controllava più del 60% del mercato interno. L’entrata sul mercato unico europeo ha decretato la fine del protezionismo – la quota di mercato di Fiat nel suo stesso paese arriva oggi appena al 20%.  

Messa in ginocchio

“Il gruppo Fiat è passato dagli 1,59 milioni di veicoli venduti nel 1997 agli 0,92 milioni dello scorso anno”, spiega l’economista e scienziato dei trasporti Ferdinand Dudenhöffer, professore all’Università di Düdingen-Essen. Con una produzione stimata a 730’000 veicoli, l’Italia ha “pochissima rilevanza” in Europa.

“La crisi di Fiat ha messo in ginocchio l’Italia dell’industria automobilistica – che non si riprenderà mai più”, ritiene Dudenhöffer che vede opportunità solo per i prodotti di nicchia.

Il Ceo del gruppo Sergio Marchionne ha concluso la fusione di Fiat con l’americana Chrysler Jeep nel 2014 e spostato la sede operativa a Londra. L’italo-canadese è riuscito a ridurre buona parte del debito di Fiat, che era quasi in bancarotta. Ma lo stesso Marchionne ha annunciato qualche giorno fa che interromperà la produzione di massa in Italia per concentrarsi sui prodotti più prestigiosi di Maserati, Alfa Romeo e Jeep. Fiat si limiterà alla 500 e alla Panda (costruite in Polonia).

“Produrre in Italia ha poco senso a causa della severità delle norme in materia di licenziamento e dei salari elevati”, spiega Dudenhöffer. Con un costo della manodopera di circa 28 euro all’ora in questo settore, l’Italia è più cara della Germania orientale e si situa nettamente al di sopra di Giappone (22,9 euro all’ora) e Spagna (22,7) – e se si fa il confronto con i paesi dell’Europa dell’Est, è molto più dispendiosa.

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Oltretutto, solo una parte del costo del lavoro è direttamente imputabile ai salari: con un tasso dell’88%, i costi accessori “sono quasi altrettanto elevati della retribuzione versata al lavoratore”, scrive l’Istituto tedesco per la ricerca economica di Colonia. I contributi sociali potrebbero ancora aumentare se il nuovo governo attuerà il suo piano per affossare la riforma pensionistica del 2011. 

Già oggi un pensionato italiano riceve il 73% del suo ultimo salario e va in pensione dopo 35,8 anni di lavoro, nota il quotidiano tedesco FAZ. Il sistema pensionistico immaginato dal nuovo governo sarebbe di diversi miliardi più dispendioso, e anche i costi del lavoro potrebbero di conseguenza aumentare.

Grafico costi del lavoro per unità di prodotto
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Com’era la situazione con la lira? La valuta italiana è restata relativamente stabile fino all’abolizione del sistema di tasso di cambio fisso nel 1973. Ma in seguito, una mancanza di disciplina nella politica fiscale ha portato a costanti svalutazioni, alta inflazione e fughe di capitali. 

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Non è un terreno attrattivo per gli investitori stranieri. Questi investimenti sarebbero però più che mai necessari poiché il paese della Dolce vita spende nella ricerca e nello sviluppo solo la metà di quanto fanno Francia e Germania (ponderando in base alla prestazione economica).

E questo ha delle conseguenze. Ancora a metà degli anni ’80 Olivetti era, dopo IBM, il più grande produttore di computer al mondo e dava lavoro ad oltre 50’000 persone a Ivrea, vicino a Torino. Ma negli anni seguenti la compagnia ha dovuto fare i conti con la concorrenza asiatica e statunitense. Il patron Carlo De Benedetti ha dunque venduto la divisione computer e l’azienda si è incorporata a Telecom. 

Oggi la Olivetti ha ancora 450 impiegati. Le piccole imprese sono in ogni caso la maggioranza nel paese: la tipica azienda italiana ha, in media, appena quattro impiegati. Solo un’impresa su 100 occupa più di 50 persone, si legge in un rapporto di Reuters.

Migliaia di piccolissime aziende faticano a confrontarsi con la globalizzazione e con l’accresciuta competitività che ne deriva. Non hanno le risorse per investire nelle nuove tecnologie e stare al passo con i cambiamenti. Un mix di burocrazia eccessiva e tasse elevate ne ostacola lo sviluppo. 

Agli occhi della Lega e dei politici pentastellati, Berlino e Bruxelles sono probabilmente da biasimare anche in questo caso. È molto più facile puntare il dito che impegnarsi per cambiare qualcosa. 

Traduzione dal tedesco di Zeno Zoccatelli

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