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Prigionieri a vita, o quasi

Gli effetti della società del cosiddetto rischio zero sulle persone sottoposte a misure di internamento. 

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Da RSI NewsCollegamento esterno.

In Svizzera, non tutti coloro che si trovano in carcere hanno una pena da scontare. Alcuni hanno già pagato il loro debito con la giustizia, ma sono considerati irrecuperabili e pericolosi. Ad altri la pena è stata sospesa, ma siccome affetti da gravi turbe psichiche, vengono tenuti in prigione. I carcerati sottoposti a questa misura di rivalutazione costante non sono però necessariamente assassini o stupratori. C’è anche chi è in carcere da 12 anni per aver rotto la vetrina di una farmacia.

Sottoposte a misure stazionarie ci sono quasi mille persone. La maggior parte sono sotto l’Art. 59Collegamento esterno del Codice penale. Negli ultimi dieci anni, questi casi sono quasi triplicati. Sono quasi raddoppiati invece i detenuti sottoposti a internamento secondo l’Art. 64, perché considerati “meno recuperabili” sempre per la loro pericolosità e per la gravità dei crimini commessi. Sono 148. Come si spiega questo aumento? Le misure vengono rinnovate regolarmente e queste persone vengono rilasciate sempre meno. Questo contesto ha conseguenze importanti sul sistema carcerario svizzero.

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L’infinita attesa di John e Kevin

John ha quasi 60 anni ed è in carcere per abusi sessuali. È stato condannato a una pena detentiva di 3 anni e 4 mesi e invece sono 24 anni che aspetta la libertà e una seconda possibilità. John è stato internato dopo che una perizia psichiatrica lo ha dichiarato pericoloso e non curabile a causa della particolare struttura della sua personalità. In seguito, ci sono state altre sei perizie incoraggianti, ma durante i riesami, l’internamento è stato comunque sempre riconfermato.

“Quando sarò troppo vecchio e malato, farò ciò che va fatto per uscirne, perché quando superi la soglia della disperazione, arrivi a soluzioni estreme”, ci ha detto John al telefono dal carcere bernese di Thorberg.

A vivere nell’incertezza c’è anche Kevin, che ha 37 anni ed è in carcere da 11, malgrado la sua pena fosse di 4 anni e 8 mesi. Kevin è stato condannato per tentato omicidio, in Inghilterra. Dopo qualche tempo, per essere più vicino alla famiglia, ha chiesto di poter scontare la sua pena in Svizzera ed è stato mandato alla Stampa, dove ha imparato l’italiano e intrapreso un percorso universitario.

Lo scorso anno, Kevin è passato dall’articolo 64 al 59.3. Questo significa che ha più possibilità di essere rilasciato, ma anche lui sostiene che le perizie psichiatriche, “quando sono negative vengono considerate, mentre quando sono positive vengono messe da parte”.

Neanche lui sa quando uscirà. E nella stessa situazione di John e Kevin, oggi, ci sono oltre 700 persone.

Numeri sempre più importanti

In poco più di dieci anni, i detenuti sottoposti all’articolo 64 sono raddoppiati e hanno raggiunto quota 148. Quelli sottoposti all’articolo 59 sono addirittura triplicati e oggi sono 583 su una popolazione carceraria totale di 7mila detenuti. Questo significa che, nelle prigioni svizzere, quasi un detenuto su 10 potrebbe restare rinchiuso a vita, senza tuttavia che un giudice abbia pronunciato un ergastolo.

“Queste misure prevedono dei riesami a scadenze regolari, ma sono prolungabili “ad vitam aeternam”, ci dice l’avvocato ginevrino Guglielmo Palumbo, che si batte contro le derive del sistema. “Basta guardare le cifre per convincersi che non funziona. Ogni anno, di questi detenuti ne vengono scarcerati solo 3 su 100. Se le misure funzionassero, ci sarebbero più liberazioni”.

Ed è proprio il basso numero di liberazioni che spiega l’aumento. I detenuti sottoposti a misure si accumulano sollevando non solo questioni etiche, ma anche logistiche perché le strutture attrezzate per far fronte alle loro necessità terapeutiche sono poche e sempre piene.

Le misure come regolatore sociale

Il fine di queste misure è quello di proteggere la società e garantire cure psichiatriche intensive in ambito penitenziario per diminuire il rischio di recidiva. Il principio è buono, secondo Panteleimon Giannakopoulos, psichiatra e direttore medico di Curabilis, struttura carceraria per i detenuti psichiatrici che è stata aperta a Ginevra nel 2014, dopo la tragedia di Adeline, la socio-terapeuta uccisa da un detenuto durante un’uscita.

“Quello che è più problematico”, secondo il Professor Giannakopoulos, “è che queste misure sono state progressivamente usate come regolatore sociale, con un aumento molto netto negli ultimi anni, e questo nel solco di un’evoluzione sociale segnata da un crescente bisogno di sicurezza”.

Un bisogno di sicurezza che spinge a tenere queste persone in prigione per lunghi periodi. Vengono sì creati dei percorsi che dovrebbero portarli verso la liberazione, ma in taluni casi il percorso dura un decennio o più per cui, per i critici del sistema, si tratta di una perpetuità psichiatrica mascherata.

In sostanza, i dati ci dicono che una volta che scatta è difficile che un giudice decida di metter fine ad una misura raccomandata da uno psichiatra perché deve assumersi il rischio di sbagliare, di rimettere in libertà un detenuto che potrebbe ricadere nel crimine e provocare altre vittime.$

Altri sviluppi

Un difficile equilibrio

Le questioni che pone questo sistema sono tante. Quanta responsabilità viene data agli psichiatri? Sono adeguatamente formati? Quanto pesa l’opinione pubblica che esige il rischio zero sulle scelte di psichiatri, commissioni e, infine, giudici? Che fare dei detenuti bollati come irrecuperabili?

Le risposte a queste e altre domande sono state fornite a Modem nella puntata del 28 gennaio ‘Prigionieri a vita, o quasi’ , dal giudice Mauro Ermani (presidente del Tribunale penale), dall’avvocato Goran Mazzucchelli e dallo psichiatra Rafael Traber (direttore dei Servizi psico-sociali cantonali). Tutti e tre sono, o sono stati, membri della Commissione ticinese che si occupa dei detenuti pericolosi.

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