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L’addio di Napolitano, e quei 30 surreali applausi in 40 minuti

tvsvizzera

di Aldo Sofia

La scena è indimenticabile. Quaranta minuti surreali. Divertenti o sconcertanti, dipende dai punti di vista. Per la prima volta nella storia della Repubblica, un capo di Stato veniva rieletto dalle Camere riunite. Implorato, supplicato di rimanere, come unico salvatore della Patria. Quindi osannato come non era mai accaduto a un capo dello Stato. Gli applausi, scroscianti e liberatori, furono copiosi. Se ne contarono ben 30. In media, uno ogni novanta secondi. Eppure, su senatori e deputati (la stragrande maggioranza, destra, sinistra e Lega) che gli avevano chiesto il “solenne sacrificio”, cadeva una gragnola di critiche che nessun altro presidente aveva mai rivolto ai rappresentanti del popolo. E più i rimproveri suonavano aspri, più entusiastica risultava l’accoglienza dei “bacchettati” (ad eccezione di Cinque Stelle e Sel).

Era il 22 aprile del 2013. A pochi mesi dal suo 88esimo compleanno, Giorgio Napolitano metteva così sul banco degli accusati un’intera classe dirigente. Una sua frase riassume il tutto: “Ho fin qui speso tutti i possibili sforzi di persuasione, vanificati dalla sordità di forze politiche che pure mi hanno ora chiamato ad assumere un ulteriore carico di responsabilità per far uscire le istituzioni da uno stallo fatale”.

E’ bene riprendere quell’immagine, quella scena irreale, quel collettivo apparente “harakiri” politico, nel momento in cui Giorgio Napolitano si appresta ad uscire di scena. Perché, possiamo starne certi, anche molti di coloro che in quel giorno di primavera gli chiesero di soccorrerli, di trascinarli sulla scialuppa della sopravvivenza politica, saranno ora prontissimi a passare da una riconoscenza quasi sguaiata ai distinguo, alla conta delle pulci, alla dissacrazione, alla smemorata se non smodata critica.

Prevarrà, in molti di loro, il sapore della facile rivincita. Contro l’ex comunista che prima lodò l’intervento sovietico in Ungheria e poi fu folgorato sulla via della scoperta liberale (“il comunista preferito da Kissinger”, fu definito a metà degli Anni Ottanta). Contro il presidente che nel novembre 2011 consumò il presunto “colpo di stato” contro il governo Berlusconi (che in realtà non aveva più i numeri in parlamento). Contro colui che consigliò al PD di non andare ad elezioni anticipate nonostante i sondaggi ultra-favorevoli (mentre era evidente che gli stessi leader del centro-sinistra temevano di guidare un governo costretto a varare misure impopolari).

Oppure contro il capo dello Stato poi accusato anche di essere al servizio della tecnocrazia europea, dimenticando che l’alternativa poteva anche essere uno “scenario alla greca”, con la Troika a dettare condizioni ineludibili. Contro la sua idea fissa, quasi un’ossessione, di un’Italia governabile soltanto attraverso le “grandi intese”, a nuove forme di compromesso storico (da Monti a Letta e in parte anche a Renzi). Infine, contro l’uomo del Colle che addirittura avrebbe travalicato, con i suoi teorici diktat, i confini dello stesso mandato costituzionale.

Esagerata (quanto insincera) fu la sua santificazione; esagerati (quanto strumentali) saranno molti di questi prevedibili attacchi.

Uscire dal proscenio della Storia significa anche sottomettersi al giudizio della Storia. Che dovrebbe avere la parola definitiva. Si vedrà. Per ora, si può solo immaginare che l’uomo pronto a lasciare l’ex palazzo dei pontefici sia pervaso dal sollievo ma anche da una certa amarezza. Il sicuro sollievo di un novantenne stanco e, si dice, anche malato. Ma poi l’amarezza di constatare che i suoi 9 anni di Quirinale si chiudono, nonostante l’avvio di alcune riforme tenacemente invocate, sullo sfondo di un’Italia per nulla pacificata, meno europeista, e più sfiduciata.

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