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Le straordinarie implicazioni sociali e geopolitiche della vittoria di Trump

Clinton-Trump, gli Stati decisivi Limes

La notte elettorale americana ci consegna il ritorno preminente sulla scena politica americana (e dunque internazionale) della questione di classe. Piuttosto che i temi culturali o sessuali, su cui la Clinton ha incentrato la sua campagna elettorale, è stata la sofferenza reddituale della classe media, colpita dalla globalizzazione, a determinare la vittoria di Trump. Una rivalsa della dimensione materiale, che avrà notevoli implicazioni sul futuro dei due partiti d'America e sul dominio globale di Washington.

Concentrati soprattutto sui dati demografici (caratteristiche sessuali, anagrafiche, geografiche, razziali) i sondaggisti statunitensi hanno clamorosamente mancato il pronostico delle presidenziali. Fino a ieri sera tutti i rilevamenti (nessuno escluso) prevedevano la vittoria più o meno larga di Hillary Clinton. Estraneo ai calcoli dei pollster era l’elemento di classe, la rabbia della middle-class bianca nei confronti dell’establishment, accusato d’aver abbracciato la finanziarizzazione e la deindustrializzazione dell’economia a scapito del tenore di vita dei cittadini.

Come mai capitato nella storia degli Stati Uniti, l’appartenenza di classe ha trasceso qualsiasi altra ragione di voto ed indotto i membri del ceto medio-basso residenti negli Stati del Midwest a votare in favore di Trump, che delle loro istanze si è reso paladino. Così donne e molti giovani hanno scelto il magnate newyorkese in barba alle sue dichiarazioni sessiste o alla sua figura demodé. Perfino alcuni ispanici hanno preferito il candidato repubblicano per ragioni di classe, onde impedire alla Clinton (proposito teorico ma percepito come reale) di regolarizzare milioni di ispanici clandestini che potrebbero sottrarre loro i lavori più umili.

Talmente potente la rappresaglia sociale da consentire a Trump di sovvertire alcune regole storiche della grammatica politica d’Oltreoceano. Anzitutto la necessità di costruire una formidabile macchina elettorale per introdurre potenziali simpatizzanti alla propria dialettica e convogliargli alle urne. Poi di infischiarsene dell’idiosincrasia dei suoi concittadini che non eleggevano un newyorkese alla Casa Bianca dai tempi di Franklin Delano Roosevelt.

Quanto accaduto grava sulla tenuta dei due principali partiti d’America. Trump, come Bernie Sanders durante le primarie, hanno ricordato alla sinistra statunitense che le battaglie relative ai valori culturali (diritti dei gay; status delle coppie di fatto; ruolo della religione della società etc.) sono divenute di retroguardia, perché ormai (quasi) definitivamente vinte. E che le condizioni di vita della popolazione sono tornate di assoluta importanza. Un’evidenza che i democratici dovranno necessariamente comprendere, altrimenti neanche l’apertura nei confronti delle minoranze potrà salvarli in futuro dalla débâcle elettorale.

Quindi la richiesta da parte dei bianchi d’essere posti al riparo dalla globalizzazione, specie attraverso una moderata forma di protezionismo, potrebbe incidere sul dominio statunitense sul globo. Perché la globalizzazione è semplicemente un sinonimo di pax americana, ovvero del controllo assoluto delle vie marittime oceaniche da parte di Washington. Qualora la superpotenza ne respingesse l’esistenza determinerebbe la fine della propria supremazia planetaria, o comunque il suo ridimensionamento. Di fatto abdicando al ruolo di egemone. Per questo sarà dunque impellente per la prossima amministrazione conciliare le pretese anti-liberiste della popolazione con la natura imperiale del paese.

Nell’ambito di una manovra strategica quanto il risultato delle presidenziali americane.

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