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Mafia, migranti e precarietà creano un cocktail esplosivo

Migrante africano al lavoro in un campo in Calabria
Durante il periodo di raccolta, i migranti rappresentano una manodopera a buon mercato per l'agricoltura calabrese. © MAGALI GIRARDIN

Porta d’entrata per decine di migliaia di richiedenti l’asilo, il Sud Italia è sull'orlo dell’implosione. Le immagini idilliache di villaggi modello che accolgono con benevolenza i rifugiati, nascondono una realtà migratoria drammatica. Buona parte della popolazione ne ha abbastanza di questa nuova manodopera a buon mercato.


Ammassati alle finestre di un albergo, sulle cui pareti pende biancheria dimenticata, i visi dei giovani uomini, per lo più di origine africana, trasmettono una sensazione di noia e di inquietudine. A oltre 1’300 metri di altitudine, lontani da ogni vita sociale e da ogni contatto, vegetano a più di un’ora di strada da Reggio Calabria.

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tendopoli illegale che ospita dei migranti a San Ferdinando, in Calabria

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“È pericoloso, per me, parlarvi”

Questo contenuto è stato pubblicato al Per molti migranti africani, la battaglia non è vinta nel momento in cui si arriva sul suolo calabrese.

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Ospitati nella piccola stazione sciistica di Gambarie, nel parco nazionale dell’Aspromonte, la maggior parte di loro è in attesa che le autorità statuiscano sulla loro richiesta d’asilo. Nella maggioranza dei casi la risposta sarà negativa, a volte dopo diversi ricorsi. Fino ad allora pazientano, inattivi o irreggimentati nelle reti parallele di lavoro in nero, come altre decine di migliaia di migranti arrivati nell’Italia meridionale.

In questo centro di prima accoglienza sono un centinaio, installati in un albergo dismesso. Oltre al vitto e all’alloggio, questi giovani dovrebbero anche beneficiare di cure, avere accesso a una formazione o addirittura a un lavoro remunerato con un regolare contratto. Prestazioni, queste, previste dalla legge. E inoltre dovrebbero avere la libertà di spostarsi. L’esempio di Gambarie non è di gran lunga un’eccezione.

Una realtà anarchica

In Calabria, dei privati cittadini affittano il loro appartamento o creano delle cooperative per aprire dei centri d’accoglienza, senza tuttavia offrire tutte le prestazioni richieste.

“Chi accoglie, riceve 35 euro per ogni persona. Non vi è però nessun controllo sulle prestazioni offerte.”

“Chi accoglie, riceve 35 euro per ogni persona. Non vi è però nessun controllo sulle prestazioni offerte”, spiega un giovane medico di Reggio Calabria. “Lo sviluppo di questo vero e proprio business della migrazione sfortunatamente non sciocca più nessuno”, deplora.

Una realtà anarchica, che per la sua ampiezza solleva molti interrogativi. “Queste persone hanno bisogno prima di tutto di cure psicologiche”, sottolinea Fabiola Bonora, psicologa in un centro di Gizzeria, in provincia di Catanzaro. “Dopo quello che hanno vissuto durante il viaggio verso l’Europa, devono poter parlare di queste tragedie per poter avanzare. Possono essere necessari diversi mesi”.

“La decisione di accogliere dei migranti deve prima di tutto essere dettata dalla volontà di aiutare questa povera gente”, afferma Giovanni Carino, responsabile della cooperativa Nuovi Orizzonti a Gizzeria. “Ospitiamo anche 23 giovani uomini in un appartamento a Nicastro (40’000 abitanti, ndr) – prosegue. Ognuno è seguito individualmente. Cerchiamo la migliore opzione possibile, adattata alla situazione di ognuno”.

migrante seduto all interno di una struttura d accoglienza
All’interno del centro di accoglienza “Il Gabbiano”, di Gizzeria. © MAGALI GIRARDIN

A 19 anni, Josephus sogna di diventare un grande calciatore. Arrivato otto mesi fa a Gizzeria, il giovane liberiano dovrebbe entrare a far parte prossimamente della squadra locale, la Sambiase, in serie D. Spera di staccare il biglietto d’entrata per l’Europa con il calcio. “Lavora molto per raggiungere il suo obiettivo. Tutti gli africani giocano a calcio, ma lui è veramente talentuoso”, osserva Giovanni Carino.

Partito dalla Liberia all’età di 16 anni, Josephus non immaginava che il viaggio si sarebbe trasformato in inferno. “Ho attraversato diversi paesi assieme ad altri giovani. Lavoravamo per mangiare. È stato duro, ma il peggio è stato la Libia. Là sono stato rapito, racconta. Quando i guardiacoste libici ci hanno preso – è successo due volte – ci hanno picchiati e poi rinchiusi come topi”.

Il terzo tentativo è stato quello buono. “Ringrazio Dio di essere ancora vivo”, dice. Oggi Josephus posta sulle reti sociali delle sue foto con indosso la maglia della Liberia o della squadra calabrese di Sambiase. È impensabile per lui mostrare nel suo paese d’origine la realtà precaria in cui vive e condividere il calvario del suo esilio.

La storia di Josephus è quella di quasi tutti i suoi compagni di sventura che hanno vissuto la barbarie libica. “Appena passi la frontiera, se hai la pelle nera è l’inizio dell’inferno”, assicura Bakare, 38 anni. Dalla camera in cui vive con altri tre sopravvissuti, questo nigeriano, arrivato nel 2016, guarda ogni giorno quel mare che lo ha quasi inghiottito. “Freedom, it’s freedom here”, ripete, sottolineando che l’Italia gli ha salvato la vita e che è sua intenzione installarsi e trovare un impiego nella meccanica, come nel suo paese.

Dai villaggi modello ai campi illegali

La Calabria è un po’ una medaglia a due facce: da un lato vi è l’immagine da cartolina postale che attira molti turisti, dall’altra decine di migliaia di migranti sbarcano tutto l’anno dai cargo e dalle navi dei guardiacoste italiani o delle ONG. Dall’inizio del 2017 sono arrivate nel paese oltre 100’000 persone, principalmente nei porti del sud. Nel 2016 erano più di 180’000. Bambini, donne e uomini, soprattutto dell’Africa del Nord.

Dai centri di smistamento, sono in seguito stati trasferiti nei centri di prima accoglienza, innanzitutto in Calabria, Sicilia o Puglia, in attesa che la loro richiesta d’asilo venisse trattata. Alcuni sono stati direttamente inviati verso strutture nel nord del paese. Dall’estate del 2016, solo 10 migranti in Calabria hanno aderito al programma di rientro volontario dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM); a livello nazionale sono stati 578.

“Qui ci si può veramente ricostruire, anche se a volte è solo per qualche mese.”
Rosy

I più fortunati arrivano in strutture d’accoglienza che offrono condizioni di vita dignitose, un sostegno psicologico o un aiuto alla formazione. Talvolta, hanno anche la possibilità di avere un lavoro remunerato, con un contratto, o di svolgere per qualche mese un’attività di volontariato al servizio della collettività, con alla fine un certificato.

Queste attività avvengono spesso in villaggi isolati della Calabria. Il più celebre è Riace. Il modello d’integrazione applicato qui è oggetto di dibattito. “Qui mi trovo finalmente in pace”, sostiene Rosy, arrivata in Calabria coi suoi due bambini e che si è salvata dall’annegamento. A otto anni, Philippe ha ancora i postumi di ustioni causate dalla benzina e di un braccio fratturato in Libia. “Sta bene, a scuola si impegna e so che qui i miei figli avranno un futuro”. A 43 anni, questa camerunense spera di potere rimanere a Riace. “Mi siedo su una panchina e guardo passare la gente”, afferma ridendo. “Qui ci si può veramente ricostruire, anche se a volte è solo per qualche mese; possiamo riprendere le forze per affrontare la vita”.

persona cammina nei vicoli di Riace
Nei vicoli di Riace. © MAGALI GIRARDIN

Il successo di Riace ha tuttavia creato qualche malumore tra gli eletti della regione e il comune recentemente ha avuto difficoltà finanziarie, poiché le banche frenano nell’anticipargli i fondi previsti per la presa a carico dei migranti in Italia. “Normalmente le persone che non possono più seguire i programmi devono partire”, spiega Vincenzo, un cittadino di Riace oggi professore di alfabetizzazione nella cooperativa Welcome. “Qui però il sindaco, Domenico Lucano, ha deciso di non escludere nessuno e cerca degli arrangiamenti per trovare degli alloggi e delle attività che permettano ai migranti di rimanere”. Al pari di un pensionato palestinese che incontriamo, sono numerosi a vivere qui da più di dieci anni.

Scuole e chiese, rari luoghi di mescolanza

Gli abitanti e i migranti si incontrano alle scuole elementari, all’asilo o nella chiesa di Riace; al di fuori di questi luoghi, le comunità però non si mischiano. Domenica primo ottobre, la sala comunale è gremita: una famiglia nigeriana festeggia il primo compleanno di Clinton, ancora in equilibrio precario nelle sue luccicanti scarpe da ginnastica nuove. Siamo le uniche persone che non provengono da questo continente. “A Riace non c’è animosità nei confronti di chi arriva, anzi. Ci si limita però a dei ‘ciao’ educati nelle strade, ammette un abitante. Pochi di noi creano dei veri legami con loro”. Il villaggio di Riace rimane comunque un modello unico e rappresenta un’opportunità per i migranti che ci vivono.

Persone a passeggio nelle strade di Riace, con un uomo di colore in primo piano
A Riace i contatti tra la popolazione locale e i nuovi arrivati si limitano spesso a dei ciao cortesi. © MAGALI GIRARDIN

Abbiamo incrociato delle famiglie e dei giovani felici, probabilmente per la garanzia – non ufficiale – del sindaco di non rinviarli una volta che il termine di soggiorno sarà giunto a scadenza. La situazione del villaggio svolge sicuramente anche un ruolo. A una quindicina di minuti dal mare e dai grandi comuni dei dintorni, Riace è collegata a una rete di trasporti pubblici efficace.

L’immagine che vanta questi villaggi calabresi come un ideale di integrazione e di rinascita economica è tuttavia ingannevole. Guardando un po’ più da vicino, il sogno non è così dorato. La soluzione è spesso solo transitoria e fonte di ansia per i migranti.

Angoscia permanente

L’ospitalità nei confronti dei migranti ha permesso di evitare la morte di certi villaggi, la chiusura delle scuole e dei negozietti di paese. Ma a quale prezzo per questa nuova popolazione sfasata e isolata in un paese di cui non parla nemmeno la lingua? Tanto più che, secondo le statistiche, il 99% di loro non ha nessuna chance di potersi installare e costruire una vita in questo comune assurto a zona di tregua. L’accoglienza prevista nei progetti di integrazione è limitata nel tempo. Una volta le domande d’asilo rifiutate – o anche accettate – i migranti devono cedere il posto ai nuovi arrivati. In media restano due anni nei progetti d’accoglienza.

due bambini piccoli su un divano mentre guardano un telefonino
Tra i nuovi arrivati non vi sono solo uomini, ma anche molte donne e bambini. © MAGALI GIRARDIN

Nella zona di Sant’Alessio in Aspromonte, 32 richiedenti l’asilo hanno trovato rifugio nelle piccole frazioni. L’associazione Coopisa ha trovato una decina di alloggi nel comune per ospitare i nuovi arrivati. La cooperativa si dà da fare per proporre delle attività. Fornisce un aiuto psicologico e sociale e mette a disposizione una mediatrice culturale. I migranti incontrati nelle stradine sono coscienti della chance che hanno di essere presi a carico, in un luogo che permette loro di respirare dopo i drammi vissuti durante il periplo. “Non potete immaginarvi in che stato arrivano”, sottolinea Luigi, responsabile di sette progetti Coopisa. “Ho lavorato come medico in molti paesi africani, ma torture simili non le avevo mai viste”.

piedi con vistose ferite
Usman, originario della Guinea, è sopravvissuto all’inferno. © MAGALI GIRARDIN

Anche se l’accoglienza in questi villaggi porta un po’ di riconforto, la sensazione d’angoscia non abbandona mai i migranti. “Sono felice di essere qui, sana e salva assieme ai miei bambini”, afferma Assa, 31 anni, stringendo tra le braccia Salvatore. Il bambino, che ha appena due mesi, è nato in Calabria ed è stato battezzato con il nome dell’infermiere che l’ha aiutata a partorire. Attorniata dagli altri figli, due piccoli gemelli e una bambina di 5 anni, Assa confida con la voce rotta dall’emozione: “Ho pregato, pregato per uscire da questo inferno, per sopravvivere su quei battelli sovraccarichi, cercando di non perdere i miei bambini. Non so cosa ne sarà di me. Non posso rientrare in Camerun, sono cristiana e l’arrivo di Boko Haram ci ha spinti sulla strada dell’esilio”.

In un altro villaggio, l’incontro con una coppia di pakistani conferma questa angoscia onnipresente. “Non dormiamo più”, dice un’avvocata costretta a lasciare il proprio paese nel 2013. “Cosa ne sarà dei nostri figli?”. I due bambini, di due e cinque anni, corrono nell’appartamento spensierati, come è giusto che sia alla loro età.

“Eravamo in un paese del nord”, spiega il padre. “Stavamo bene, avevo un lavoretto, conoscevo altre persone, potevamo sperare di ricostruirci una vita. Un giorno però ci hanno mandato qui. Da allora non facciamo altro che aspettare il momento in cui ci diranno: ecco i vostri documenti, dovete partire”. Per andare dove? “È una bella domanda; i documenti ci permetteranno di rimanere in Europa, ma come faremo per vivere? Raggiungere un altro paese, in quattro, senza soldi?”.

Un caso tra i tanti che attesta la severa applicazione degli accordi di Dublino e che impone un pesante fardello a una delle regioni più povere d’Europa. Di fronte a una popolazione con bisogni considerevoli in materia di presa a carico, è difficile potere abbozzare qualsiasi passo d’integrazione. La Germania, che ad esempio nel 2015 aveva accolto con entusiasmo decine di migliaia di rifugiati, oggi ne rinvia una buona parte verso l’Italia.

Sommando ai nuovi arrivi questi rinvii effettuati in virtù dell’accordo di Dublino, in Italia la situazione diventa ingestibile. Dopo un leggero calo l’estate scorsa, probabilmente dovuto al nuovo codice di condotta imposto dalla Commissione europea e dalle autorità italiane alle ONG che operano nel Mediterraneo, il flusso è ripreso.

Libertà ingannevole?

Come Riace, il villaggio di Acquaformosa, nel nord della Calabria, ha deciso di aprire le porte ai migranti. “Il nostro ex sindaco, Giovanni Manoccio, oggi responsabile dell’immigrazione nella Regione, ha fatto questa scelta per evitare che il comune perdesse la scuola e ritrovasse un equilibrio sociale”, spiega l’attuale primo cittadino Gennaro Capparelli. “La cooperativa che li accoglie è molto attiva e i migranti hanno opportunità interessanti per quanto concerne la formazione”. Un esempio di buona presa a carico e di accompagnamento, che non deve però nascondere la questione dell’eterogeneità sociale. Nell’unica strada di questo villaggio, solo David, otto anni, figlio di Larry e Blessing, una coppia di nigeriani insediati qui dal 2011, gioca con un piccolo calabrese. Assunti come mediatori culturali nel quadro del progetto del sindaco, Larry e la sua famiglia sono tra i rari africani ad essersi veramente stabiliti ad Acquaformosa. Per la maggior parte di loro si tratta solo di un passaggio.

Prostituta su una strada di Lamezia Terme
Molte donne, nella foto una nigeriana a Lamezia Terme, sono spinte sulla strada della prostituzione. © MAGALI GIRARDIN

Nel centro per minorenni del comune, due nigeriane, vittime di stupri collettivi e di sevizie durante il loro viaggio, scoppiano a ridere quando parliamo loro di libertà. “Sì, guardate, è fantastico, siamo libere! Ma libere di cosa? Qui non c’è niente da fare, ci sono solo degli anziani seduti sulle panchine!”. Le due adolescenti aspirano a diventare stilista e medico. “Seguiamo dei corsi d’italiano, ma io voglio partire nel nord”, afferma una di loro. “Voglio diventare un grande medico a Roma”, le fa eco la seconda.

“Seguo una formazione di pizzaiolo e appena sarò maggiorenne andrò a Milano o in qualche altro posto al nord per lavorare. Qui non c’è futuro.”
Caramba

Caramba ha invece dei progetti più realistici. Dal suo arrivo nel 2016, quando aveva 16 anni, non ha mai smesso di lavorare per cercare di inserirsi. Dopo qualche settimana, parlava già correntemente italiano. “Seguo una formazione di pizzaiolo e appena sarò maggiorenne andrò a Milano o in qualche altro posto al nord per lavorare. Qui non c’è futuro. Ma il centro è veramente in ordine, ci aiutano per trovare una strada e dopo è normale che dobbiamo cavarcela da soli”. Per il momento la sua domanda d’asilo non è ancora stata accettata, ma la sua giovane età e la sua capacità d’integrarsi dovrebbero aiutarlo.

Tutti questi progetti di inserimento, condotti nei cosiddetti centri di seconda accoglienza, denominati Spar, offrono appena 26’000 posti. Una goccia d’acqua e una speranza per meno del 70% dei 176’000 richiedenti l’asilo censiti in Italia da inizio anno. Senza contare le decine di migliaia di clandestini, spesso molto giovani, che si trovano al di fuori del sistema d’accoglienza. Tra i 12’360 minorenni non accompagnati registrati nel 2015 in Italia, più di 5’000 sono spariti dagli schermi radar.

La maggior parte degli immigrati resta in balia dei trafficanti e delle potenti reti di tratta degli esseri umani. Installati nei ghetti o accolti temporaneamente in strutture caritative o nelle chiese, dipendono dalla volontà dei capi mafiosi locali, che a volte danno loro un lavoro, remunerato o meno.

Secondo il reporter italiano Giampaolo Musemeci, co-autore con Andrea di Nicola di “Trafficanti d’uomini”, il business dello sfruttamento dei migranti genera tra 3 e 10 miliardi di dollari all’anno nel mondo. Malgrado un rafforzamento della repressione in Italia, è difficile immaginare che il fenomeno possa essere un giorno sradicato.

Poiché l’Italia espelle solo eccezionalmente dei richiedenti verso il loro paese d’origine, la manodopera a buon mercato di cui si può disporre a piacimento non manca: i migranti si battono per essere scelti per effettuare i compiti più vili, che permettono loro di guadagnare a malapena qualche euro per sopravvivere.

Traduzione di Daniele Mariani

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