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L’originale-normale Dario Fo

Tra i suo quadri rsi

di Claudio Moschin

Lo conoscevo bene Dario Fo. Lo conobbi quando, per molti era un personaggio scomodo. Perché, appassionato di teatro, andavo spesso a vederlo lavorare alla Palazzina Liberty, a Milano, dove dalla metà degli anni Settanta lui, sua moglie Franca Rame e il loro collettivo teatrale (La Comune) organizzavano spettacoli che allora erano parecchio “controcorrente”. Ma ciò che più ricordo è il suo stupore un po’ infantile quando nel 1997 ricevette la notizia che gli era stato assegnato il premio Nobel per la letteratura. Piombammo in casa sua io e alcuni altri colleghi giornalisti, sinceramente pure noi stupiti quanto lui e forse anche di più per quella notizia che ricevemmo intorno all’ora di pranzo. Tanto che, per un po’, si pensò ad uno scherzo, ad una notizia falsa, ironica, creata per prenderci in giro. Ma la notizia era vera, e forse, col senno di poi, eravamo noi della stampa a non aver capito il valore delle opere Teatrali e letterarie di Dario Fo. Per riceverci tutti, quell giorno, Fo noleggiò pure un teatro vicino a casa, stracolmo all’inverosimile di giornalisti di tutto il mondo, fotografi, operatori video e tanti, tanti curiosi per strada. Ma lui, sul palco, rimase praticamente sempre se stesso, divertente e divertito del prestigioso premio. Alla fine anzi ci volle in camerino, a raccontarci qualche altro aneddoto.

E tale è rimasto, da allora Dario Fo. Originale e direi “normale”.

Più volte sono stato a casa sua, un palazzo qualsiasi di Milano, in fondo a corso Porta Romana. Ci sono stato per diverse interviste video andate in onda alla RSI, per poi magari andarcene altrove insieme. Come quella volta che fu invitato a tenere una lezione all’Università della Bicocca, sui mass media. Aula gremitissima, gente fuori che voleva entrare e sentirlo, e lui che ascoltava chi gli diceva questo o quello, e aveva una parola per tutti, un consiglio, un suggerimento.

L’ho visto l’ultima volta a casa sua all’inizio di quest’anno, quando presentò il libro “Razza di zingaro” pubblicato da Chiarelettere. Passai un paio di ore a vederlo lavorare nel suo studio, impegnato a disegnare con la matita, anzi con il carboncino, indossando il suo solito grembiule. Parlammo di arte, di libri, e naturalmente anche di politica, di televisione e (per forza) anche del suo libro. Ma per farlo, volle prima cambiarsi, e indossare una giacca. E mentre mi raccontava del libro, mi portò a vedere in salotto i suoi ultimi quadri, quelli coloratissimi, dedicati al pugilato. Parlammo anche del futuro, nel senso che eravamo entrambi un po’ pessimisti, non tanto per noi stessi quanto per “l’andazzo – così diceva lui – della società italiana”.

E’ stata l’ultima volta che l’ho visto, e di questo incontro mi resta un filmato e molte fotografie che gli ho scattato liberamente. Immagini di un Dario Fo lucido e ironico, con tanta voglia ancora di fare, di raccontare. Lui che fu un artista a 360 gradi, incapace di stare fermo, incapace d’essere “catalogato” in uno schema artistico, perché lui fu drammaturgo, scrittore, regista, attore, scenografo e poi anche pittore. E forse, scusatemi, mi sono pure dimenticato qualcosa d’altro.

Chissà dove andrà ora a tenere banco il mitico Dario.

Claudio Moschin

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