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Fiscalità: una spina nel fianco per Svizzera e Italia

La fiscalità dei redditi da risparmio «è un tema serio, che va trattato in modo serio, non in modo svizzero», affermava il ministro italiano delle finanze e dell'economia Giulio Tremonti in tempi non lontani. Keystone

Il 2011 è stato un anno particolarmente turbolento per le relazioni tra Svizzera e Italia, segnate una volta di più dal contenzioso fiscale e dalla questione dei frontalieri. L'analisi di Carlo Altomonte, professore di politica economica europea alla Bocconi.

Da diversi mesi ormai i negoziati sulla vertenza fiscale tra Svizzera e Italia sono a un punto morto. Al di là delle dichiarazioni diplomatiche, i tentativi di dialogo sono ripetutamente naufragati sotto il peso degli attacchi dell’ex ministro dell’economia Giulio Tremonti e delle rappresaglie elvetiche. Prima tra tutte, la decisione del canton Ticino di congelare la metà del ristorno ai frontalieri.

A inizio dicembre, il ministro italiano Mario Monti ha dichiarato di non voler negoziare un accordo sulla fiscalità con la Svizzera, secondo i modelli prescelti da Germania e Regno Unito. A suo avviso, infatti, questi trattati «non rispettano gli standard dell’OCSE» e rappresentano una specie di «sanatoria».

La crisi insomma resta aperta, accentuata dalle turbolenze dell’euro e dall’instabilità finanziaria dell’Italia. Swissinfo.ch ne ha discusso con Carlo Altomonte, professore di politica economica europea all’Università Bocconi di Milano ed ex collaboratore di Mario Monti alla Commissione europea.

swissinfo.ch: Il Governo Monti ha inserito una tassa dell’1.5% sui capitali scudati. Questo provvedimento rischia di generare nuovo problemi nei rapporti con la Svizzera? Monti sarà in grado di ricucire lo strappo?

Forse dal punto di vista politico questa volta non ci sarà un ulteriore strappo. Sono però convinto, e in questo concordo con il direttore dell’Agenzia delle entrate italiano, che il gettito di questa mini-patrimoniale non sarebbe comunque elevato.

Pensare di imporre un’ulteriore tassazione da un lato viola un principio costituzionale secondo il quale non si può essere puniti due volte per lo stesso reato e, d’altro canto, genera un ulteriore problema dato che, essendo anonimi, i capitali potrebbero non esserci più.

Lo scudo fiscale è stato visto male dagli svizzeri perché considerato un atto unilaterale del governo italiano con il quale l’Italia ha rimpatriato oltre 100 miliardi di euro. La Svizzera ne ha contestato l’unilateralità, perché ha avuto un impatto sul sistema bancario elvetico e ticinese in particolare. Nel caso di Germania e Gran Bretagna, si è fatto in modo di tenere il capitale in Svizzera tassandolo in maniera diversa. Cosa vantaggiosa per la Svizzera e anche per gli altri due paesi.

swissinfo.ch: Il problema dei ristorni dei frontalieri è ancora sul tavolo. Recentemente il Consiglio di Stato ticinese ha chiesto a Berna di ridurre la percentuale destinata a Roma (il 38.8%) e ha congelato una parte dei soldi dovuti all’Italia (28 milioni di euro)

Direi che è un po’ una vendetta svizzera rispetto allo scudo. Le cifre in gioco sono basse e non vedo una soluzione ovvia. Se i ticinesi non volessero pagare, difficile obbligarli a farlo. Per risolvere la questione ci vorrebbe un rinnovo dell’accordo quadro tra i due paesi in grado di vietare l’introduzione di azioni unilaterali che imponga alle due parti di concordare le decisioni.

L’incertezza giuridica sulla questione, essendo la Svizzera interessata a continuare ad attrarre capitale umano italiano, potrebbe a lungo andare essere negativa e magari il lavoratore italiano ad alta qualificazione e mobilità, potrebbe anche decidere di non andare a lavorare più in Svizzera.

La mia sensazione è che il frontaliero di oggi non sia più l’operaio degli anni ’70, ma un lavoratore dotato di alta specializzazione e scolarizzazione. Sta trovando sbocco in Ticino laddove c’è una mancanza di questo tipo, mentre soffre in Italia per la rigidità del suo mercato del lavoro. Si tratta di un frontaliero che trova domanda dall’altro lato del confine e che non ruba il lavoro agli svizzeri, ma che colma una lacuna.

swissinfo.ch: Ci sono ancora capitali italiani che fuggono in Svizzera?

Sicuramente e i dati lo dimostrano. Ci sono tre ragioni per spiegarlo. Innanzitutto l’accanimento dello stato italiano sui cittadini che hanno scudato i capitali.

Poi il problema della crisi del debito sovrano. Io stesso sento di capitali italiani (legittimi e regolarmente dichiarati, beninteso) che stanno per essere spostati e trasformati in valuta e gestione svizzera per proteggersi dal rischio teorico dell’euro anche se la tassazione sulla rendita dei capitali in Svizzera è più alta che in Italia.

La terza ragione, inutile nasconderlo, è per elusione fiscale: grandi imprese del Nord Italia di vari comparti industriali come per esempio la moda, spostano le loro sedi in Ticino dove godono di miglior trattamento fiscale.

swissinfo.ch: Le turbolenze dell’euro hanno inciso sulle esportazioni svizzere verso l’Italia e gli altri paesi europei. Come giudica la misura della Banca Centrale di fissare il cambio minimo del franco a 1.20?

La misura ha sicuramente stabilizzato il mercato. Durante il 2011, il franco ha cominciato ad apprezzarsi anche per via dell’afflusso di capitali verso la Svizzera, imponendosi come una valuta percepita come un bene rifugio e di stabilità. Il rischio era quello che il franco salisse sempre di più accelerando lo spostamento di altri capitali che avrebbero potuto generare problemi di competitività in Svizzera oltre che nella gestione dei tassi di cambio. La Banca Centrale Svizzera ha stabilizzato il tasso di cambio vendendo franchi svizzeri e comprando euro. Mossa che ha aumentato la quantità di euro in riserva presso le sue casse.

Io sostengo però che bisogna fare attenzione a trasportare i capitali in Svizzera e a trasformarli tutti in franchi svizzeri dato che, una volta che la crisi dell’euro verrà risolta, poi il franco scenderà e tornerà al suo valore di due anni fa, dunque con il rischio di segnare un deprezzamento significativo del patrimonio trasformato in franchi svizzeri.

In queste crisi di panico si possono anche prendere decisioni avventate: se la banca Centrale Svizzera sta comprando euro, e dunque implicitamente si fida della moneta unica, convertire tutto in franchi è un rischio.

swissinfo.ch: Ultimamente alcuni politici della Lega hanno ipotizzato l’estensione della Svizzera alle province italiane confinanti. Che vantaggi ci sarebbero se l’ipotesi si verificasse?

Premetto che i confini nazionali non sono mai esogeni rispetto al sistema economico. Cioè se tra Italia e Svizzera c’è un confine secolare che delimita due diversi sistemi economici, è perché c’è sempre stata una difficoltà di dialogo tra le due parti dovuta alla conformazione del territorio, con i relativi costi di trasporto, di comunicazione, etc.

Dunque, dati questi costi, una estensione di questo tipo porterebbe dei trasferimenti e dei sussidi dello stato centrale svizzero verso queste nuove province del Sud. Avrebbe probabilmente più costi che vantaggi.

Il cosiddetto «Accordo tra l’Italia e la Svizzera relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri ed alla compensazione finanziaria a favore dei comuni italiani di confine» è stato firmato nel 1979 ma è entrato in vigore retroattivamente nel 1974.
 
La quota del ristorno dell’imposta alla fonte era inizialmente del 40%, poi nel 1985 del 38,8%. La maggior parte delle imposte alla fonte verso l’Italia è versata dal Ticino (circa 90%), il restante 10% dai Grigioni e dal Vallese.
 
Nel caso dei frontalieri austriaci, solamente il 12,5% viene ritornato all’Austria. A tale riguardo, il Consiglio federale ha affermato che gli accordi non possono essere confrontati direttamente.
 
Nel caso italiano si tratta di ristorni validi solo per i frontalieri che vivono entro un raggio di 20 km dalla frontiera. Nel caso austriaco il ristorno vale per tutti i lavoratori.

Uno dei nodi da sciogliere per un eventuale accordo fiscale sarà di determinare a quanto ammontano i capitali italiani depositati nelle banche svizzere.
 
La stima oscilla tra i 130 e i 230 miliardi di euro.

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