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Il dramma degli islamici Rohingya in Myanmar

Nei giorni scorsi l’immagine di un bimbo di 16 mesi morto, con il viso immerso nel fango, ha portato alla ribalta il dramma dell’etnia Rohingya in Myanmar. Oggi il primo ministro malese ha invitato i paesi musulmani a fare di più per fermare la persecuzione.

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Le autorità birmane continuano a negare la pulizia etnica ai danni della minoranza musulmana nel paese ma intanto da ottobre sono ripresi gli scontri e le persecuzioni perpetrate dall’esercito, che secondo un bilancio parziale avrebbero fatto almeno 90 morti. Numeri che non rendono l’idea delle violenze subite dai Rohingya, un nome che non è possibile nemmeno pronunciare nel Myanmar guidato dalla silente premio Nobel Aung San Suu Kyi.

Sono concordanti i racconti dei sopravvissuti che sono riusciti a oltrepassare il confine con il Bangladesh, di cui riferisce il servizio di Loretta Dalpozzo. Militari che sparano sui civili e danno fuoco alle case, la fuga nella giungla delle persone impaurite e braccate dai soldati e infine l’attraversamento avventuroso del fiume Naf per raggiungere la sponda del Bangladesh.

Secondo stime dell’Onu negli ultimi mesi 34’000 Rohingya sono fuggiti all’estero. Si tratta di musulmani di lingua affine al bengalese, una popolazione di circa un milione di persone residenti nel Myanmar occidentale e che il regime considera come immigrati provenienti dal Bangladesh, illegalmente insediatisi in Birmania e per questo motivo privi di diritti.

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