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Frontaliere, “je t’aime, moi non plus”

La dogana di Ponte Tresa, uno dei punti di passaggio obbligati per molti frontalieri che vengono a lavorare in Svizzera. Keystone

Il fenomeno del frontalierato è legato a doppio filo con la recente storia economica, sociale e culturale del Ticino e delle regioni italiane a ridosso del confine. Un fenomeno che negli ultimi anni ha assunto proporzioni impressionanti e creato molti attriti.

La questione dei frontalieri in Ticino, che a cadenze regolari si ripropone, è originata dal rapporto indissolubile tra le due realtà a cavallo del confine: da un lato l’apporto dei lavoratori pendolari residenti essenzialmente nelle province di Varese (44%), Como (40%), Verbania-Cusio-Ossola 10%), ha garantito per decenni la crescita, in certi frangenti tumultuosa soprattutto nel dopoguerra, nei settori delle costruzioni, dell’industria, dei servizi finanziari e del turismo. 

Dall’altro il mercato del lavoro cantonale ha funto da valvola di sfogo per le regioni lombarde e piemontesi a ridosso della frontiera, attutendo l’impatto delle ricorrenti crisi occupazionali vissute periodicamente nella penisola e assicurando, grazie al cambio favorevole del franco, un tenore di vita elevato.

In questo contesto l’accordo sottoscritto da Roma e Berna nel 1974 aveva garantito un regime fiscale privilegiato ai residenti entro i 20 chilometri dal confine, a fronte però di rigide prescrizioni per questa categoria particolare di lavoratori, come l’obbligo perentorio di rientrare ogni sera al proprio domicilio.

Un’impennata impressionante

Ma tutto è cambiato a partire dal secondo millennio: l’entrata in vigore della libera circolazione nel giugno 2002 e la grave crisi economico finanziaria, che dal 2008 ha colpito duro soprattutto in Italia, hanno provocato l’afflusso crescente della manodopera transfrontaliera, che è raddoppiata in poco più di un decennio, dai 32’590 del 2002 ai 62’846 del 2014, con un’impennata negli anni della profonda recessione 2009-2013, da 46’230 a 60’306 frontalieri.

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 Un’evoluzione che ha avuto un impatto rilevante sul mercato del lavoro ticinese, costituito da 231’160 occupati (per una popolazione di 351’900 abitanti) e ha creato effetti distorsivi (pressioni sui salari, dumping e sostituzione di lavoratori indigeni con lavoratori italiani meno costosi). Il Cantone ha cercato di reagire cercando di estendere la contrattazione collettivaCollegamento esterno (CCL) e, ove assente, i cosiddetti contratti normali di lavoro, che prevedono retribuzioni minime in determinati settori non coperti dai CCL.

E si è cercato di intensificare i controlli contro il lavoro nero coinvolgendo le parti sociali (imprenditori e sindacati). Anche per gestire meglio questa situazione la Confederazione aveva promosso, nel quadro degli accordi fiscali italo-svizzeri sottoscritti nel 2015, una riforma dell’intesa del 1974 sui frontalieri, che aveva concesso a questa categoria di lavoratori un trattamento fiscale di favore (competenza esclusiva della Confederazione che imponeva alla fonte i lavoratori transfrontalieri in base alle aliquote elvetiche).

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L’accordo tecnico tra le due delegazioni era stato raggiunto nel dicembre 2015 ma restano due nodi politici, da parte italiana, che ne rimandano la firma definitiva: la presentazione del casellario giudiziale per l’ottenimento del permesso di lavoro – ritenuta discriminatoria – e l’attuazione conforme agli accordi sulla libera circolazione dell’iniziativa contro l’immigrazione di massa del 9 febbraio 2014 da parte del parlamento federale.

Un’economia che non sopravvivrebbe

Ma al di là delle vertenze politiche resta la questione di fondo: l’economia ticinese non sopravvivrebbe un giorno senza l’apporto di manodopera dalla vicina penisola in diversi rami cruciali: ospedali, industria, edilizia e commercio al dettaglio.

Ma con la libera circolazione numerosi lavoratori italiani hanno iniziato a infiltrarsi in settori del terziario tradizionalmente retaggio dei ticinesi. E la cronaca riporta continuamente casi di segretarie, dentisti e persino architetti, per citarne solo alcuni, cui vengono offerti salari che sono la metà di quelli normalmente in vigore in svizzera.

Una situazione che ha suscitato campagne ostili da parte delle formazioni di destra, come l’UDC con la sua “bala i ratt” o la Lega dei ticinesi, partito di maggioranza relativa nel governo cantonale, che evoca muri al confine. Mentre al di là della frontiera c’è chi soffia sul malcontento dei frontalieri che nel giro di un decennio vedranno aumentare gradualmente il peso delle imposte che saranno chiamati a versate a Roma in virtù del nuovo accordo. Tutte tensioni che sono destinate a crescere nell’attuale clima di incertezza originato dalla mancata firma dell’intesa del dicembre 2015.


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