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La forza di un’idea. Un’idea di giustizia

Ritratto di uomo sulla sessantina, in abito formale, sguardo riflessivo; dietro, si intravvedono bandiere e cielo terso
Dick Marty ritratto davanti al Palazzo d'Europa di Strasburgo nel 2011, suo penultimo anno da deputato all'Assemblea parlamentare del CdE. Keystone / Martin Ruetschi

Nel 2005, Human Rights Watch e il Washington Post denunciarono l'esistenza di prigioni segrete della CIA in Europa e la detenzione illegale di presunti terroristi. A far luce sulla vicenda per il Consiglio d'Europa fu lo svizzero Dick Marty, che oggi rievoca quella e altre inchieste nel libro 'Una certa idea di giustizia'. Lo abbiamo incontrato in marzo, alla vigilia di una presentazione all'Istituto svizzero di Milano, rinviata sine die a causa della pandemia.

Politico ed ex procuratore, specializzato in diritto penale internazionale e criminologia, Dick Marty presiedeva la CommissioneCollegamento esterno degli affari giuridici e dei diritti umani del CdE. Dopo un complesso lavoroCollegamento esterno di indagine svolto con tre collaboratori, rivelò che più Paesi europei avevano aiutato i servizi segreti statunitensi in attività illegali; la stessa Svizzera non aveva impedito l’uso del suo spazio aereo per il trasporto di persone rapite [leggi qui i rapporti presentati a giugno 2006Collegamento esterno e 2007Collegamento esterno].

Oltre che sulle carceri segrete (nel 2014, la Commissione d’intelligence del Senato USA confermerà la sostanza di quanto emerso), Marty ha indagato negli anni su numerosi fronti tra l’Europa e il Medio Oriente: il traffico internazionale di droga, il traffico di organi, il terrorismo, le violazioni dei diritti umani.

Il libro -uscito nel 2018 come Une certaine idée de la justiceCollegamento esterno, poi pubblicato in italiano da Casagrande- è il racconto delle principali inchieste (incluse quelle condotte da procuratore su riciclaggio, frodi, corruzione, incidenti sul lavoro), dell’impegno politico e di numerosi viaggi, da quelli compiuti in anni giovanili nel blocco orientale alle missioni nell’ambito della cooperazione e dell’aiuto allo sviluppo in Ruanda, Congo-Kinshasa, Mali, Haiti, Guatemala, Cipro.

Copertina di libro con autore e titolo (Marty/Una certa idea...). Immagine di Marty che tiene un discorso
Edizioni Casagrande

Tappe di una carriera scandita anche dagli incontri con vittime, criminali (un capitolo è dedicato alle dinamiche che si instaurano negli interrogatori), capi di Stato (Castro, al-Assad) ma soprattutto donne e uomini che rischiano anche la vita per difendere i diritti altrui. Episodi che l’autore ha messo nero su bianco, alternandoli a riflessioni sulla giustizia, dopo un breve episodio di amnesia che gli ha fatto temere di poterne perderne, un giorno, memoria. Firma la prefazione il magistrato italiano Armando Spataro.

Tvsvizzera.it: L’idea di giustizia che dà il titolo al libro è maturata nel corso del tempo o è piuttosto un punto fermo che l’ha accompagnata negli anni?

D.M.: La giustizia non è semplicemente applicare le leggi, è qualcosa di molto più vasto. Le leggi si cambiano e, bisogna dirlo, non sono sempre giuste. È anzi grazie a delle violazioni che sono state modificate e si è ristabilita una certa giustizia. Io direi che nell’essere umano c’è qualcosa, da sempre, che fa sì che si sappia più o meno cosa è giusto. È sorprendente come da tantissimi secoli -pensiamo al codice Hammurabi che è del 1700 a.C. o il Codice di Ciro il Grande del sesto secolo a.C.- siano già stati proclamati dei principi fondamentali. Per esempio, Ciro condannava la schiavitù. Eppure, al di là di queste proclamazioni, l’essere umano ha sempre violato questi precetti.

Il possibile divario tra coscienza e legalità è però lo stesso su cui fanno leva coloro che giustificano, ad esempio, le detenzioni illegali dicendo: “è servito a rendere il mondo un posto migliore”. Qual è la differenza?

Ricordo di quelle scrittrici francesi che dichiararono pubblicamente di aver abortito, che allora era un crimine in Francia: un gesto di rivolta contro la legge che ha fatto sì che il legislatore riconoscesse che la condanna dell’aborto era ingiusta. Oppure il pastore che di recente è stato condannato a Neuchâtel, soltanto per aver offerto da mangiare e da dormire a un richiedente asilo la cui richiesta era stata respinta; questi atti ci permettono di riflettere sul fondamento di queste norme, della conformità a questa grande idea di giustizia.

In altri casi c’è un abuso. Il ricorso sistematico alla tortura nella lotta contro il terrorismo non è giustificabile né dal punto di vista etico-morale né da quello legale. Ma nemmeno da quello dell’efficacia. Io ricordo sempre Carlo Alberto Dalla Chiesa: quando qualcuno propose di reintrodurre la tortura perché poteva, in certe circostanze, salvare la vita, lui che era il capo dell’antiterrorismo andò in televisione e disse: “La perdita di Aldo Moro è una tragedia per l’Italia, ma l’Italia sopravviverà. Se reintroduciamo la tortura, l’Italia non sopravviverà”. Ecco, questo era un messaggio fortissimo. Di giustizia.

Lungo corridoio illuminato solo da fasci di luce filtranti da porte aperte; in fondo, due militari
Polonia e Romania furono i primi Paesi indicati da Human Rights Watch come possibile sede di centri di detenzione illegale (nell’immagine d’archivio, corridoio di una base aerea d’epoca sovietica a est di Bucarest). Keystone / Vadim Ghirda

Magistrato e politico liberale-radicale, classe 1945, Dick Marty fu sostituto, poi procuratore in Ticino dal 1975 al 1989, anno in cui entrò in Consiglio di Stato (governo cantonale). Nel 1995 fu eletto al Consiglio degli Stati (camera alta del Parlamento federale), dove rimase fino al 2011. Oltre agli impegni no-profit, negli anni ha assunto incarichi speciali quali inchieste e rapporti per governi cantonali e presieduto l’Assemblea intergiurassianaCollegamento esterno. Ha compiuto missioni e viaggi di studio con delegazioni parlamentari, di ONG o su incarico del Consiglio d’Europa, della cui Assemblea parlamentare è stato membro dal 1998 al 2012.

Lei è noto internazionalmente per aver indagato sulle extraordinary renditions. Ma questo libro non punta il dito contro gli Stati Uniti: emerge piuttosto il rammarico per come i Paesi europei si sono comportati di fronte a tali abusi.

La scelta degli Stati Uniti ha una sua coerenza. Per me, totalmente sbagliata e inefficace, ma gli USA assumono le loro scelte. Non solo: una commissione del Senato statunitense ha fatto luce Collegamento esternosulle modalità e sull’inefficacia della politica antiterrorista messa in atto dall’amministrazione Bush e nel 2014 ha pubblicato un grosso rapporto riconoscendo che era fondamentalmente sbagliata, che non ha aumentato la sicurezza dei cittadini, anzi l’ha resa molto più precaria.

Gli Stati europei hanno collaborato a questa politica (che includeva atti criminali come sequestrare persone in strada, consegnarle ad altri Paesi o alla CIA al di fuori di qualsiasi regime di assistenza giudiziario, sottoporle a torture) violando le proprie Costituzioni, e si sono sistematicamente opposti a che si faccia luce. Per me, che ho sempre lavorato e creduto nelle istituzioni, è stato un colpo durissimo vedere che chi parla di Stato di diritto e di diritti dell’uomo poi calpesta questi valori e nemmeno vuol tentare di giustificarlo.

Negli Stati Uniti, inoltre, la reazione è stata più vivace e sana che in Europa: ci sono ong che hanno reagito molto bene e 500 avvocati si sono messi a disposizione gratuitamente.

Al contempo l’Italia, benché sia stata teatro di una plateale violazione dei diritti fondamentali -il rapimento di Abu Omar- è anche il Paese che più ha fatto luce sulla vicenda. Un lavoro che Le è tornato utile nel suo ruolo di relatore per il Consiglio d’Europa.

Certo, merito soprattutto della Procura di Milano, di Armando Spataro e di agenti di polizia estremamente capaci e caparbi. Grazie a essi l’Italia è tra i pochi paesi che hanno fatto o tentato di far luce. Ma il potere politico -in Italia come altrove- ha invocato a torto il segreto di Stato, che ha una sua giustificazione in circostanze particolari, ma qui serviva a mascherare azioni criminali di agenti dello Stato.

Non solo: la Corte costituzionale ha proibito l’impiego di mezzi di prova che stabilivano la piena colpevolezza dei vertici del Sismi, che aveva collaborato con la CIA, cosa per cui l’Italia è stata condannataCollegamento esterno a Strasburgo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

La Svizzera consentì più di un atterraggio degli aerei speciali statunitensi. Ma nel suo libro racconta a fondo anche un’altra vicenda, quella di un imprenditore, privato delle proprie attività e delle libertà personali perché compariva su una lista nera Onu.

Non immaginavo che nel nostro Paese una persona potesse essere colpita da un tale provvedimento senza conoscerne esattamente le ragioni. L’uomo non è stato sentito, non ha potuto difendersi, non c’era istanza indipendente che permettesse di rivedere la decisione: per 8-9 anni non è potuto uscire dall’enclave di Campione d’Italia e tutti i suoi beni sono stati sequestrati. Una vita rovinata.

Per me stato uno choc enorme. Non ci si può rifugiare dietro a quel che dice il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Io ritengo sia compito della nostra giustizia, quando dei beni fondamentali sono così crassamente messi in gioco, proteggere i nostri cittadini. E qui il Tribunale federale non l’ha fatto. L’ha fattoCollegamento esterno la Corte EDU, che rimane l’unica istanza giudiziaria che ha richiamato gli europei all’osservanza dei principi fondamentali.

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Nel corso delle sue inchieste internazionali o delle missioni per le ONG non ha mai avuto paura? Paura di scoprire qualcosa che le toglie il sonno, di rimanere solo o di incontrare ostilità.

Ho trovato tutte queste cose, ostilità e solitudine, però quando si ha la convinzione di fare qualcosa di giusto tutti questi ostacoli diventano secondari. Non c’è né coraggio né eroismo, c’è semplicemente la convinzione che bisogna andare avanti perché si sta facendo qualcosa che bisogna fare. E in fondo è un privilegio che puoi farlo tu.

Lei è stato nei Balcani, nel Caucaso, in Africa. Prendo spunto da un vecchio slogan verde (che dice “l’ambientalismo senza lotta di classe è soltanto giardinaggio”) per chiederle: la lotta per i diritti umani è monca se non si contrasta anche la povertà?

Certamente. In una visione molto restrittiva e individuale dei diritti dell’uomo, sono stati un po’ trascurati i diritti sociali. Il fatto di beneficiare dell’accesso all’educazione, alla salute, di poter vivere in una società armoniosa (e una società che ha forti disuguaglianze non lo è). I diritti umani richiedono dunque giustizia sociale. Tra l’altro -lei cita gli ecologisti- la grande sfida del clima può essere vinta solo se la soluzione è socialmente equa, altrimenti andiamo incontro a un disastro assoluto.

Tanti le hanno chiesto qual è l’inchiesta che le è più cara. Qual è invece l’incontro che più le è rimasto impresso o l’ha sorpresa?

Il libro è dedicato a una bambina che ho visto per venti minuti in una gabbia a Manila, nelle Filippine, in un carcere per minori. Lo sguardo di questa bambina mi ha sconvolto. Vedere questi mezzi utilizzati contro dei bambini è stato sconcertante.

Ho incontrato parecchi capi di Stato, ma le dirò che mai sono stato molto impressionato. Gli incontri che mi hanno maggiormente colpito sono quelli con persone umili che fanno il loro lavoro; tante volte fanno un bene enorme senza sbandierarlo o dirlo. Sono queste le persone che ho visto in Bolivia, in Africa, o in Cecenia, dove delle donne rischiano ogni giorno la vita perché denunciano i soprusi e aiutano le vittime. Questi sono semmai i veri eroi.

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