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Fuga di cervelli e nuove migrazioni a confronto

Ticino e Italia sono accomunati, pur con le loro rispettive peculiarità, dal fenomeno della fuga di cervelli. È quanto emerso al convegno su "Migrazione e libera circolazione" organizzato sabato 10 novembre a Lugano dal Comites (Comitato italiani esteri).

L’emigrazione, ha indicato il nuovo console generale a Lugano Mauro Massone, è in ripresa con 130’000 italiani che nel 2017 hanno lasciato il paese (+3,2%), a fronte di 100’000 persone immigrate nello stesso anno. Ed è significativo, ha sottolineato il console generale, il sensibile incremento nel quinquennio (+36%), in particolare tra gli ultracinquantenni costretti dalla crisi a cercare un’occupazione all’estero. I paesi di destinazione sono in prevalenza in Europa (70%), America Latina (14%) e Nord America (7%).

Ma un’emigrazione interna, ha osservato la consigliera nazionale Marina Guscetti Carobbio, la vive anche il cantone italofono, abbandonato per motivi di studio dai giovani che raramente fanno ritorno a casa dopo l’università.

È vera fuga di cervelli?

Contro le facili generalizzazioni riguardo all’asserita fuga dei cervelli ha parlato lo storico Paolo Barcella (Università di Bergamo), secondo cui solo il 30% dei fuoriusciti hanno una laurea e spesso si trovano a esercitare professioni diverse da quelle in cui sono stati formati, come nel caso tipico degli “universitari che vanno a fare i pizzaioli o altri lavori precari nella ristorazione a Berlino o Londra”. 

La particolarità del fenomeno attuale è che le partenze toccano soprattutto le regioni più industrializzate (Lombardia, Veneto, Emilia), colpite duramente dalla crisi del 2007-2008. E in certe realtà locali l’emigrazione è “un dramma che produce distruzione di comunità e desertificazione sociale”, come avviene oggi nel Meridione, in cui spesso restano solo “anziani e malati”.

Perché scappano dall’Italia?

Ma quali sono i motivi all’origine di questa fuga di cervelli? Per l’oncologo Alberto Costa (Ieo di Milano e Centro di senologia della Svizzera italiana) l’origine è da ricercare in alcune poco invidiabili specificità dell’Italia: un sistema universitario bloccato, burocrazia (“Ci vogliono 65 passaggi e 26 sportelli per aprire un’attività”), corruzione (“L’Italia è alla 63esima posizione nel mondo per trasparenza, solo la Bulgaria fa peggio nell’Ue”), evasione fiscale (“36 miliardi dell’IVA sottratti nel 2017 al fisco, il top in Europa”), mancanza di regole e un paese percepito solo come luogo di vacanza, spingono molti giovani a cercare fortuna altrove.

“Cervelli non significa laureati, come indicano i numeri, ma teste pensanti e creative che non hanno trovato in Italia le condizioni per realizzare i loro progetti”, ha precisato l’oncologo.

Anche in Svizzera la questione migratoria è d’attualità: il prossimo anno verosimilmente i cittadini saranno chiamati alle urne per esprimersi sull’iniziativa popolare “Per un’immigrazione moderata” lanciata dalla destra (Udc), che nella sostanza chiede di revocare l’accordo di libera circolazione con l’Ue. In ogni caso, a detta dell’economista Giovanni Barone-Adesi (Università della Svizzera italiana) la Confederazione, che ha una lunga esperienza in materia, dispone di un sistema collaudato “migliore rispetto agli altri paesi europei”.

La preoccupazione principale riguarda il dumping salariale e da parte di alcune forze politiche si pensa di risolvere la questione con “soluzioni dirigistiche (contingenti annui di manodopera) che non funzionano nell’economia moderna”.

Contraddizione svizzera: frontalieri o stranieri residenti?

Resta comunque una contraddizione di fondo, sottolinea invece Paolo Barcella, costituita dai lavoratori frontalieri, di cui sono “spaventatissimi in Ticino – dove il mercato del lavoro è oggettivamente stressato” – ma che negli altri cantoni sono benvenuti.

Una riedizione, insomma, dei “dibattiti degli anni ’70 sull’Ueberfremdung quando erano in molti a temere che la Confederazione mutasse il suo panorama” in conseguenza del forte inforestierimento, visto che gli stranieri residenti e le loro famiglie incidevano sui servizi e sulle assicurazioni sociali. E per questo motivo “non volevano contingentati i frontalieri” che invece la sera, finito il lavoro, se ne tornavano a casa oltre confine.

In merito infine alle particolarità della migrazione in Svizzera, sempre lo storico Paolo Barcella ha rimarcato che negli anni ’50 e ’60 la manodopera italiana “era in gran parte composta da donne attive nel settore tessile”, come nel caso delle lavoratrici impiegate in manifatture bergamasche che si sono trasferite nel Canton Glarona. Un fenomeno che da un lato ha avuto effetti emancipatori e dall’altro ha favorito la diffusione dell’associazionismo cattolico nel paese, con la costituzione di missioni di suore che si occupavano delle operaie emigrate.  

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