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I misteri di Eni portano a Ginevra

ginevra vista dall alto con in primo piano il jet d eau
Ginevra e uno dei suoi principali simboli: il jet d'eau. Keystone/ Valentin Flauraud

Sulle rive del lago Lemano s’incrociano alcuni intrighi legati alle inchieste per presunta corruzione che vedono coinvolto in Italia il gruppo petrolifero controllato in parte dallo Stato italiano.

Ginevra, crocevia di diplomatici e banchieri, covo di spie e faccendieri, è una città d’intrighi internazionali. Passano da qui anche molti misteri legati alla Eni, la società petrolifera italiana che già negli anni ’70 e ’80 aveva stabilito sulle rive del Lemano parte delle proprie attività occulte.

Fatti più recenti riguardano invece le due più importanti inchieste condotte in Italia contro il gruppo del cane a sei zampe, quelle sulle presunte mazzette versate in Nigeria e in Congo. In entrambi i casi, la matassa ingarbugliata delle indagini porta, prima o poi, nella Città di Calvino.

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Il ritorno di Eni nella “lavatrice” elvetica

Questo contenuto è stato pubblicato al È il 31 maggio del 2011. Alla BSI di Lugano c’è fibrillazione nell’aria. Un bonifico così non lo si vede certo tutti i giorni: 1,092 miliardi di dollari. L’ordine arriva da Londra, da un conto intestato al governo della Nigeria presso la JP Morgan Chase. Quel miliardo e “poco più” è atterrato alla Morgan solo…

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La doppia “M” dell’avvocato ginevrino

Chi sono M1 e M2? Queste sigle sono state scarabocchiate dall’avvocato Richard Granier-Deferre, ex responsabile per la Nigeria della compagnia petrolifera svizzera Addax. L’uomo è un partner storico dell’ex ministro del petrolio nigeriano Dan Etete. Ossia di colui che, secondo la Procura di Milano, è uno dei principali beneficiari della maxi-mazzetta che Eni e Shell avrebbero versato per mettere le mani sulla concessione Opl245. Una vicenda che, oltre alle due multinazionali, vede attualmente a processo i principali vertici del gruppo italiano (vedi box). Granier-Deferre è abituato a muoversi nei fondali torbidi del greggio africano. Nel 2009 è stato condannato in FranciaCollegamento esterno per complicità in riciclaggio proprio per avere aiutato Etete a spostare ingenti somme di denaro in Europa. Sempre nel 2009, individuato da un intermediario come l’uomo giusto per arrivare a Etete, l’avvocato svizzero entra in scena nella vicenda Opl245.

Iniziate le indagini, la Procura di Milano chiede a Berna di sentire Granier-Deferre, figura che “assume un ruolo peculiare, meritevole di attenzione investigativa”. Gli scarabocchi ritrovati a Ginevra, a casa dell’avvocato, potrebbero infatti confermare l’ipotesi investigativa secondo cui una parte della presunta tangente sarebbe dovuta ritornare ai manager di Eni e Shell. Potrebbero essere loro M1 e M2? Interrogato a riguardo nel gennaio 2016 da una procuratrice svizzera, l’avvocato sembrava aver confermato l’ipotesi. Una versione rimaneggiata, però, lo scorso 20 marzo quando, in videoconferenza dalle rive del Lemano, Granier-Deferre è stato chiamato a testimoniare al processo in corso a Milano: “Shell e Eni non hanno a che vedere con questo schema”, ha affermato l’uomoCollegamento esterno. L’avvocato ha dichiarato che le sigle sarebbero dei conti da intestare alla società di Dan Etete, la Malabu, per convogliare il denaro relativo al pagamento della licenza.

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Lo schema trovato a casa dell’avvocato Richard Granier-Deferre. tvsvizzera

La valigia dell’intermediario nigeriano

Un altro intrigo ginevrino legato alla Eni e alle sue avventure in Nigeria pare invece di prossima risoluzione. Si tratta della valigia appartenente al nigeriano Emeka Obi, un altro importante intermediario intervenuto nella trattativa Opl245. Il trolley grigio era stato ritrovato dalla Procura di Ginevra nell’aprile 2016, durante una perquisizione a casa di Olivier Couriol, un fiduciario svizzero indagato per una vicenda che nulla ha a che fare con la Eni. La valigia, si è appurato, apparteneva ad Obi e conteneva un computer e un hard disk con oltre 41’000 documenti informatici.

Claudio Mascotto, procuratore a Ginevra, ha subito pensato che questo materiale potesse contenere prove a riguardo dell’inchiesta sulla concessione nigeriana condotta a Milano. Il magistrato ginevrino ha così avvertito i colleghi italiani i quali hanno messo in moto la macchina dell’assistenza giudiziaria: “Non è pensabile che l’abbandono della valigia sia avvenuto per dimenticanza o per momentanee difficoltà logistiche – scrivono i pm milanesi – è altamente probabile invece che sia stato un tentativo di sottrarre documenti elettronici e altre informazioni importanti all’attività di ricerca della prova in campo internazionale che questo ufficio conduce”.

Nel suo procedimento giudiziario italiano, Obi ha scelto il rito abbreviato che lo ha portato ad una condanna, nel settembre 2018, a quattro anni per corruzione internazionale. Il contenuto della valigia potrebbe ora servire per il processo degli altri indagati. A colpi di ricorsi, Obi era riuscito a bloccare per oltre tre anni la trasmissione del contenuto della valigia in Italia. Ancora la scorsa primavera, l’Italia ha dovuto ribadire “le forti implicazioni internazionali dell’affare” e “l’urgenza della trasmissione dei mezzi di prova”. Indicazioni accolte qualche giorno fa, quando il Tribunale federale ha infine decisoCollegamento esterno che il contenuto del trolley potrà finalmente essere trasmesso a Milano: all’eccezione dei filmati intimi del mediatore nigeriano, il materiale informatico dovrebbe quindi arrivare presto in Italia. Documenti che si spera possano portare a qualche informazione supplementare in un momento in cui il processo sta entrando nella fase finale.

Si apre un filone congolese

È sempre di questi giorni la notizia, resa nota dalla newsletter Gotham CityCollegamento esterno, che la Procura di Ginevra si sta interessando ad un’altra inchiesta che riguarda da vicino la Eni, quella sulle presunte mazzette versate nella Repubblica del Congo.

In questo caso, in cambio del rinnovo delle vecchie licenze che Eni deteneva nel Paese dagli anni ’80, la società italiana avrebbe trasferito una parte di queste stesse licenze alla Africa Oil & Gas Corporation (Aogc), una società controllata da Denis Gokana, ex direttore della compagnia petrolifera statale nonché uomo di fiducia del presidente Denis Sassou Nguesso.

Per i procuratori di Milano si tratterebbe di un’intesa corruttiva che avrebbe avuto anche una seconda fase. Il sospetto è infatti quello che la stessa Eni avrebbe ricevuto una retrocommissione da parte dei corrotti: i pm indagano sul 23% delle quote di un’altra licenza congolese, la Marine XI, che la stessa Aogc avrebbe trasferito ad una misteriosa società chiamata World Natural Resource (Wnr) dietro la quale si nasconderebbero quattro azionisti definiti “vicini a Eni e al suo management”. Tra questi vi è un ex manager di Eni, e tra gli accusati nell’inchiesta milanese sulla presunta corruzione di Eni in Congo.

Una volta emerso il suo ruolo sulla stampa, ecco che una banca svizzera ha segnalato il conto dando il via ad un filone svizzero dell’indagine: la Procura di Ginevra ha infatti aperto un’inchiesta per presunto riciclaggio e ha avvertito i colleghi italiani che, a loro volta, hanno subito richiesto la trasmissione della documentazione bancaria. I soldi di uno degli azionisti della Wnr restano per ora bloccati in Svizzera nell’attesa che in Italia venga provata o meno la sua colpevolezza. Nel frattempo, stando alle ultime indiscrezioni, la società che secondo il settimanale l’EspressoCollegamento esterno aveva prestato il denaro necessario alla Wnr per acquistare la quota della concessione congolese, starebbe per acquisire il 40% di questa stessa licenza petrolifera. Di chi si tratta? Di Mercuria, uno dei grandi trader internazionali. Basato a Ginevra, naturalmente.

Il caso Opl 245.

Politici corrotti, società offshore, multinazionali, manager, intermediari, affaristi e faccendieri: la trattativa per ottenere la concessione Opl245 ha avuto un gran numero di protagonisti. Tutti pronti a trarre vantaggio da questa operazione.

È il generale Abacha che, nel 1998, assegna per qualche milione il blocco Opl2 245 alla Malabu, società offshore controllata dall’allora potente ministro del petrolio Dan Etete. Qualche anno dopo alla porta di quest’ultimo bussano la Shell e la Eni: inizia una lunga trattativa ed entrano in scena vari intermediari, come Emeka Obi o Gianluca Di Nardo, faccendiere basato a Lugano, entrambi condannati nel 2018 in primo grado a Milano per corruzione internazionale.

Ad un certo punto la mediazione s’inceppa. Interviene il Governo nigeriano con il presidente Goodluck Jonathan, che mette (apparentemente) fuori gioco la Malabu e i vari mediatori, rilasciando la licenza a Eni e a Shell per 1,092 miliardi di dollari. Denaro che sarebbe dovuto atterrare su un conto alla Bsi di Lugano la quale lo respinse per ragioni di compliance: la banca verrà a sapere infatti che la relazione doveva servire quale “conto piattaforma” per un’ingente operazione che avrebbe coinvolto società sconosciute e collegate a ex politici nigeriani.

Respinto dal Ticino il denaro, attraverso vari giri, ritornerà dapprima alla Malabu e poi verrà redistribuito a vari dirigenti nigeriani, tra cui il presidente Jonathan e Etete. Per gli inquirenti italiani che dal 2012 hanno avviato le indagini, una parte di quella che sarebbe una gigantesca mazzetta sarebbe anche stata destinata a retrocessioni agli amministratori stessi di Eni. Accuse respinte dai dirigenti e dalla Eni che afferma di aver trattato solo con lo Stato nigeriano. Iniziato nella primavera del 2018, il processo è ancora in corso a Milano. Sul banco degli imputati vi sono Shell, Eni, cinque dirigenti o ex dirigenti di Eni, tra cui l’attuale ad Claudio De Scalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, Dan Etete e altri tre intermediari.

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