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Un trattato per instaurare regole internazionali

Keystone/AP Photo/Wally Santana

La facilità con la quale nel mondo si comprano e si vendono armi e munizioni ha conseguenze drammatiche. Un trattato potrebbe presto innalzare delle barriere contro il libero commercio di questi strumenti di morte.

Dal 2 al 27 luglio, il quartier generale delle Nazioni Unite di New York ospiterà la conferenza sul Trattato internazionale sul commercio delle armi. Alla conferenza parteciperanno tutti gli Stati membri dell’ONU, quindi anche i più importanti produttori, esportatori e importatori di materiale bellico convenzionale.

L’obiettivo è di fissare regole giuridicamente vincolanti per il commercio internazionale d’armi e di introdurre controlli severi per le esportazioni e altre attività transfrontaliere. Il trattato dovrebbe contribuire a rendere questo genere di commercio più responsabile ed aiutare così a ridurre un po’ la sofferenza umana. La speranza è soprattutto di riuscire a porre fine al commercio illegale di armi.

Le posizioni di Stati Uniti, Russia e Cina – che hanno espresso non poche riserve – saranno fondamentali. Nelle cerchie diplomatiche di New York e in seno alle organizzazioni non governative si spera in un accordo dai toni forti, anche se poi non tutti gli Stati lo ratificheranno.

Il trattato sul divieto delle mine antiuomo ha in questo senso servito da lezione. Anche sei i grandi paesi produttori non hanno ratificato la convenzione di Ottawa, dall’approvazione dell’accordo la produzione e l’uso di mine è costantemente diminuito.

Nessuna regola globale

Se a livello internazionale commerci come la compravendita di legni pregiati, di fossili di dinosauro o di banane sono severamente regolamentati, fino ad oggi non esistono invece regole vincolanti sul commercio di armi convenzionali e materiale bellico in generale. «Molte persone sono scioccate quando lo vengono a sapere», sottolinea Jeff Abramson, direttore della campagna «Control Arms».

Control Arms è stata lanciata nel 2003 da numerose organizzazioni della società civile. Amnesty International, tra i promotori di questa campagna, sintetizza così le conseguenze di questo mercato privo di regole: ogni minuto nel mondo una persona muore a causa della violenza armata. In un anno le vittime sono oltre mezzo milione.

Abramson è cautamente ottimista sull’esito della conferenza. «In una prospettiva a lungo termine, ci troviamo in un momento chiave. La volontà di fare qualcosa esiste». Anche se resta ancora molto da fare, «importanti paesi produttori d’armi sono convinti della necessità di agire e vogliono un trattato rigoroso», afferma Abramson.

Naturalmente restano aperte diverse domande. Alcuni paesi considerano con scetticismo un eventuale accordo. Uno degli scogli sono gli Stati Uniti, che non vogliono che il trattato includa anche le munizioni. Russia e Cina vogliono invece evitare che la convenzione sia troppo esplicita per quanto concerne la questione dei diritti umani e delle autorizzazioni per l’esportazione.

L’esempio della Siria mostra quanto sia importante instaurare barriere a un commercio che oggi non ne ha alcuna. «La Russia dice che non infrange nessuna regola, poiché l’ONU non ha decretato nessun embargo sulle armi nei confronti della Siria».

«Regola d’oro»

«Per noi è fondamentale che i diritti umani e il diritto internazionale siano al centro dell’accordo. Si tratta della cosiddetta ‘regola d’oro’». Questa regola dovrebbe obbligare ogni Stato ad effettuare un’analisi seria prima di approvare una vendita d’armi. Se esistono rischi importanti di violazioni dei diritti umani la transazione deve essere proibita.

«La formulazione è ancora oggetto di controversia», osserva Abramson. Per Control Arms è comunque chiaro: bisogna scrivere a chiare lettere che una vendita deve essere vietata se sussistono simili rischi. L’organizzazione ha già fin d’ora annunciato che darà battaglia per opporsi a formulazioni più edulcorate, come auspicato dalla Cina, dalla Russia e da diversi Stati mediorientali.

Inoltre, secondo Control Arms il trattato dovrebbe includere tutti i tipi di materiale bellico convenzionale, nonché contemplare un sistema di registrazione e un meccanismo di controllo per tutte le compravendite d’armi.

Se dalla conferenza dovesse emergere un consenso con un denominatore comune non troppo debole, il trattato rappresenterebbe «un importante passo, al quale ne dovrebbero seguire altri», sottolinea Abramson.

Armi leggere

«La Svizzera fa parte di quegli Stati che si sono fissati obiettivi ambiziosi e auspicano un trattato rigoroso ed efficace. Il nostro paese vuole un accordo trasparente, universale e non discriminante», osserva Serge Bavaud, esperto di sicurezza e questioni militari presso la missione elvetica all’ONU di New York.

Un aspetto centrale dell’accordo sono gli standard da applicare per il commercio transfrontaliero. Il trattato dovrebbe far riferimento alla Carta dell’ONU e – secondo la Svizzera, che condivide in parte le posizioni di Control Arms – permettere esportazioni d’armi solo quando non esiste pericolo di violazioni del diritto internazionale o dei diritti umani.

«Dal nostro punto di vista, è molto importante che esso includa anche le armi leggere», afferma Bavaud. Sono in effetti soprattutto queste armi a causare sofferenza tra la popolazione civile. Se ciò non dovesse essere il caso, «l’utilità di un simile accordo sarebbe molto limitata».

Le 100 più grandi aziende d’armamento hanno venduto nel 2010 materiale bellico per oltre 400 miliardi di dollari. Secondo l’Istituto di promozione della pace SIPRI di Stoccolma, negli ultimi quattro anni il commercio internazionale d’armi ha registrato una crescita del 25%.

Questo aumento è dovuto soprattutto alla crescente domanda dei paesi emergenti. L’India è oggi il più importante importatore del mondo, seguito da Corea del Sud, Pakistan, Cina e Singapore. Stati Uniti, Russia, Germania, Gran Bretagna e Francia esportano circa i tre quarti delle armi nel mondo.

Uno studio di Transparency International rileva che circa il 40% del denaro della corruzione proviene dal commercio d’armi.

Frutto della mobilitazione delle ONG e dell’implicazione di diversi Stati, il processo di negoziazione del Trattato internazionale sul commercio delle armi (TCA) è stato lanciato nel novembre 2009 con l’adozione della risoluzione 64/48 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite.

La Svizzera è implicata sin dall’inizio in questo processo. La Confederazione ha fatto parte di un gruppo composto da esperti di 28 Stati che hanno partecipato a tutti i cicli di negoziazioni preparatorie.

Grazie a una legislazione severa e alla sua tradizione umanitaria, la Svizzera ha potuto profilarsi come Stato «competente e credibile» in materia. Quale riconoscimento per il suo impegno, ha anche ottenuto un seggio alla vicepresidenza dell’ufficio della conferenza.

Le armi classiche contemplate nel trattato sono gli aerei, i veicoli blindati, i sottomarini e i missili. Le armi nucleari, chimiche e biologiche non rientrano invece nel quadro dell’accordo. È invece ancora oggetto di dibattito il fatto di includere o meno le armi leggere e di piccolo calibro.

(traduzione di Daniele Mariani)

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