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Berna-Roma: segni di disgelo, ma la primavera è lontana

Le aziende svizzere non saranno più discriminate per l'attribuzione di appalti pubblici in Italia AFP

L'Italia ha abolito le discriminazioni nei confronti delle aziende elvetiche per l'attribuzione di appalti pubblici. La decisione è stata accolta con soddisfazione in Svizzera, ma la strada verso la normalizzazione dei rapporti tra Berna e Roma è ancora lunga.

«Diciamolo francamente, si può parlare di una crisi tra i nostri due paesi; […] credo che il ministro Tremonti abbia un problema personale con la Svizzera. Ma non ne conosco la ragione»: in un’intervista concessa giovedì scorso al Corriere della Sera, Micheline Calmy-Rey non ha utilizzato tanti giri di parole per definire i rapporti attuali tra Svizzera e Italia.

Se il ministro dell’economia e delle finanze italiano sia venuto a conoscenza delle dichiarazioni della ministra degli esteri elvetica non è dato a sapere. Sicuramente si è trattato di un semplice capriccio del calendario. Comunque sia, all’indomani della pubblicazione dell’intervista, il ministero di cui è capo Giulio Tremonti ha abrogato una misura adottata nell’estate del 2010 nei confronti delle imprese svizzere. Il provvedimento obbligava i fornitori di prestazioni di determinati paesi inseriti nella lista dei paradisi fiscali, tra cui la Svizzera, a richiedere un’autorizzazione al ministero delle finanze per poter partecipare agli appalti pubblici italiani.

Segnale incoraggiante

Il governo svizzero ha naturalmente espresso la sua soddisfazione: «In tal modo l’Italia ottempera ai propri obblighi internazionali che scaturiscono dall’accordo OMC nonché dagli accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione Europea sugli appalti pubblici», ha commentato. Della vicenda si è occupata anche la Commissione Europea, che a marzo – su richiesta di Berna – aveva scritto alle autorità italiane per avere spiegazioni, muovendo così i primi passi in vista di un’eventuale procedura d’infrazione.

«Sono contento soprattutto per l’aspetto simbolico più che per i risvolti pratici», osserva Luca Albertoni, facendo notare che da sempre per le aziende ticinesi è problematico avere accesso agli appalti pubblici in Italia, al di là dei decreti che hanno inasprito la regolamentazione. Per il direttore della Camera di commercio del canton Ticino, il fatto che l’Italia riconosca che il provvedimento violava gli accordi bilaterali, implicitamente significa anche «che la Svizzera non può essere considerata un paese da lista nera».

Il deputato liberale radicale Ignazio Cassis parla dal canto suo di «segnale incoraggiante», che «ci fa sperare che l’Italia sappia ancora rispettare gli impegni di diritto internazionale assunti».

Numerosi contenziosi aperti

Autore di una mozione parlamentare che chiede al governo, tra le altre cose, di elaborare una strategia per appianare le tensioni tra Svizzera e Italia, il consigliere nazionale ticinese sottolinea però che per tutti gli altri contenziosi aperti – scudo fiscale, scudo «cerebrale» (vedi di fianco), accordo di doppia imposizione… – si è ancora in «alto mare».

«Il problema principale rimane», osserva Luca Albertoni, «poiché gli altri decreti dolorosi rimangono tali e quali e fanno sì che gli ostacoli burocratici impediscono alle nostre aziende di lavorare o hanno un’incidenza tale sui costi da non renderle più competitive». I decreti «dolorosi», che si basano sul Testo unico dell’imposta sui redditi del 1986, sono tre: quello sulle persone fisiche del 1999 (che però riguarda appunto solo privati cittadini), quello sulle «Controlled Foreign Companies» (decreto CFC) del 2002, che per un’azienda svizzera significa dimostrare di non essere una holding privilegiata fiscalmente, e infine il cosiddetto “Decreto incentivi” del 2010.

A creare problemi è soprattutto quest’ultimo provvedimento. «Il decreto concerne tutte le operazioni in cui entra in gioco l’IVA, quindi riguarda praticamente ogni attività commerciale. In sostanza, le autorità italiane chiedono alle aziende di produrre innumerevoli dati per dimostrare che l’operazione commerciale sia stata veramente effettuata e che non si sia trattato di un’operazione fittizia per evadere il fisco», spiega Luca Albertoni.

Da un sondaggio realizzato dalla Camera di commercio tra 247 aziende ticinesi, è emerso che più di sei su dieci hanno riscontrato negli ultimi sei mesi problemi a causa della crescente burocrazia italiana (presentazione di attestazioni fiscali, bancarie, partite IVA, bilanci, documenti contabili…). In molti casi, le ditte hanno dovuto rinunciare a stipulare contratti o li hanno persi a causa della disdetta da parte del cliente italiano.

Un problema nazionale

Il problema non è però solo ticinese, poiché l’Italia rappresenta pur sempre il terzo mercato d’esportazione delle aziende elvetiche. Sinora, però, Berna ha reagito in maniera piuttosto passiva.

«Nel caso degli appalti, le autorità federali hanno agito sulla base di una nostra segnalazione. Per gli altri contenziosi aperti, per contro, non si sono mosse con convinzione, forse perché li hanno sempre considerati una questione regionale e non nazionale», osserva Albertoni.

Qualcosa comunque si sta muovendo, conferma Ignazio Cassis. «Il fatto che ben 40 parlamentari abbiano sottoscritto la mia mozione conferma che a Berna si è ormai coscienti del problema e che ci si è resi conto che il governo deve affrontare la questione con un piano d’azione globale e non settore per settore, con un ufficio che si occupa di una problematica, un secondo ufficio di un’altra e così via», sottolinea il consigliere nazionale.

Un piano d’azione nel quale va coinvolta, come nel caso degli appalti pubblici, anche Bruxelles, spiega Cassis: «Sono convinto che dobbiamo far giocare gli aspetti istituzionali e l’Unione Europea ha un ruolo da giocare come garante degli accordi bilaterali Svizzera-UE». E forse – aggiunge – «bisogna anche immaginare di alzare un po’ più la voce, come del resto ha fatto Micheline Calmy-Rey; la diplomazia va bene, ma bisogna anche saper dir basta quando la corda viene tesa oltre misura». Oppure – come proposto al parlamento svizzero dallo stesso Cassis e dal leghista Norman Gobbi – di utilizzare altri mezzi di pressione come la sospensione dei pagamenti dei ristorni fiscali dei frontalieri. Il segnale di disgelo giunto da Roma è insomma incoraggiante, ma, come recita il proverbio, una rondine non fa primavera.

Durante l’ultima sessione parlamentare, i consiglieri nazionali ticinesi Ignazio Cassis e Norman Gobbi hanno depositato due mozioni riguardanti i rapporti tra Svizzera e Italia.

Nel suo atto parlamentare, il rappresentante della Lega dei Ticinesi Norman Gobbi chiede al governo «di bloccare il ristorno all’Italia delle quote-parte delle imposte alla fonte dei frontalieri italiani, fintanto che l’accordo sulla doppia imposizione con l’Italia venga concluso e che l’Italia tolga la Svizzera dalle sue blacklist». Nella mozione, Gobbi sottolinea pure il fatto che la percentuale dei proventi fiscali ristornata (pari al 38,8%) per l’Italia è ben superiore rispetto all’aliquota concordata con l’Austria (12,5%).

Il deputato del Partito liberale radicale Ignazio Cassis chiede dal canto suo al governo di «definire e attuare una strategia per porre fine al clima deleterio» nei rapporti tra Svizzera e Italia, di «integrare in questa strategia i cantoni limitrofi dell’Italia, segnatamente il Ticino» e di coinvolgere pure le autorità competenti dell’Unione Europea affinché Roma rispetti le regole comunitarie. Quali mezzi di pressione, Cassis evoca pure il blocco del ristorno delle quote-parte delle imposte alla fonte dei frontalieri italiani.

A fine 2010, il senato italiano ha approvato in via definitiva la legge per il rientro dei cervelli in Italia. I cittadini dell’Unione Europea, nati dopo il primo gennaio 1969 e laureati, se rientreranno a lavorare in Italia potranno usufruire di uno sconto fiscale dell’80% per le donne e del 70% per gli uomini fino al 31 dicembre 2013.

Recentemente, Ignazio Cassis ha inoltrato una domanda al governo svizzero chiedendo se questa legge non violi gli accordi bilaterali e sia contraria al principio della non discriminazione contemplata dalla convenzione contro la doppia imposizione tra Svizzera e Italia.

Nella sua risposta, il governo indica che la legge potrebbe effettivamente costituire una violazione dei due accordi e precisa che esaminerà la possibilità di intervenire presso la Commissione europea.

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